L’inizio di Phantom è di quelli che si portano addosso un alone di mistero: seguiamo una donna in una serie di gesti uno più irrilevante dell’altro, delle vere e proprie pose, anche piuttosto ordinarie. La macchina da presa indugia su di lei in varie posizioni: frontale, di spalle, per poi volgersi ai dettagli, all’attaccamento morboso e obliquo per gli oggetti. Il volto della donna è progressivamente negato da inquadrature che si sposano con la fissità chirurgica di un cinema verité dal sapore artigianale che vuole sembrare fatto a mano, costruito con la rigidità di un fossile e per questo (forse) desueto, di sicuro molto meno documentaristico di quel che potrebbe apparire. Un’andatura che viene però immediatamente smossa dall’insorgere di un incubo di dimensioni surreali, in cui luci rosse, sfocate e opalescenti puntellano il dialogo con una voce maschile esterna alla scena, che interroga la protagonista nel sonno, sondando la sua condizione, il suo quotidiano frustrante, la stanchezza che inevitabilmente l’accompagna. Pian piano l’atmosfera indecifrabile si fa sempre più nitida, l’uomo si materializza al suo fianco, il sonoro diventa acuto, manipolato verso il perturbante. Una sorta di guida, per la donna, che insieme a lui rivive per la prima volta frammenti di vita problematici, in un crocevia di spezzoni che delineano un puzzle difficile da ricomporre e ancor più da decodificare, a un immediato e forse anche a un secondo e terzo approccio. Si rivelerà nient’altro (o forse qualcosa di più) del flusso di coscienza di una giovane coppia, che trascorre una notte d’intensa stimolazione intellettuale parlando di innumerevoli argomenti, confrontandosi, mettendo in campo le rispettive posizioni su temi importanti oltre che su svariati dubbi esistenziali. Phantom si offre allo spettatore nella forma più ostile possibile, un film scentrato rispetto a se stesso, abbandonato all’assenza di chiarore (logico, visivo, compositivo) e ambientato in una Tokyo che più distorta non potrebbe essere, tra footage elargiti a profusione e filtri d’ogni tipo. Il regista francese Jonathan Soler si affida a delle ambizioni non temperate ma tutto sommato dignitosamente supportate, consce dei propri limiti e capaci di tirar fuori dalle giunture del film sperimentale non pochi elementi d’interesse. Su tutti un individualismo invasivo che si manifesta a chiare lettere anche nel rapporto di coppia, a testimonianza di come la cultura giapponese sia sempre più orientata all’assimilazione di certi struggimenti contemporanei e soprattutto occidentali. Si potrebbe obiettare che lo sguardo è quello di un europeo, ma la finezza luciferina con cui Soler porta avanti la sua orchestrazione singhiozzante scende molto più in profondità rispetto a una simile affermazione, forse in parte veritiera ma anche facilona. Dei suoi protagonisti il ventiseienne regista evidenzia la gioventù precaria, tra lavori part-time e un’esistenza prigioniera di un’economia instabile. Il film dopotutto inizia con la ragazza di ritorno dal lavoro e ossessionata dall’ansia di non poter condurre in porto un pagamento in tempo utile, ed è da questo lavorio interiore tutt’altro che non comune che il regista sviluppa la sua “sinfonia urbana” alla Koyaanisqatsi, un capolavoro del quale cerca di replicare la natura di “documentario d’arte” riuscendoci in maniera per lo meno accettabile. Un’opera di soli settantasette minuti radicale e stilisticamente oltranzista, la sua, tutta in voice-over e tendente all’onirico, con un montaggio che ricorda Maya Deren e Stan Brakhage e con addosso gli echi sulfurei della produzione giapponese indipendente e ribelle dei tardi anni ’60 (il compianto Koji Wakamatsu, Shuji Terayama, Leiji Matsumoto).