La locandina promozionale de Il grande match rende onore alle enormi aspettative degli appassionati. Gli ingredienti ci sono tutti: due mostri sacri del cinema pronti ad affrontarsi sul ring, portandosi dietro la propria passata leggenda. Il primo grazie al pugilato sul grande schermo ha costruito i suoi futuri successi con la saga di Rocky, il secondo sul quadrato della Nobile Arte ha piantato uno dei chiodi più saldi a puntello di una carriera inimitabile con Toro Scatenato. Proprio dimenticare due personaggi troppo ingombranti come lo Stallone Italiano e Jake La Motta sembrava essere il primo passo per poter ottenere un buon film che non scadesse nel ridicolo, con i due attori che danzano ormai intorno ai settant’anni suonati. Per prenderne le distanze l’unica strada da battere era quella della commedia e allora ecco l’approccio registico del newyorchese Peter Segal (50 volte il primo bacio, La famiglia del professore matto, L’altra sporca ultima meta) che su questo terreno si muove agile e sicuro come nel salotto di casa. Alla fine degli anni ’70 Pittsburgh era infiammata dalla rivalità per il titolo mondiale di due pugili locali, Billy “The Kid” McDonnen (Robert De Niro) e Henry “Razor” Sharp (Sylvester Stallone). I loro due durissimi incontri sono passati alla storia: una vittoria a testa, ma quando era arrivato il momento del terzo e definitivo scontro, a sorpresa Razor aveva annunciato il ritiro dal pugilato agonistico. Privata della sua rivalità, anche la carriera di McDonnen era rapidamente finita nel dimenticatoio e tra i due era rimasto solo un’insanabile frattura nei rapporti personali con Billy riciclatosi proprietario di un locale e Henry finito a fare l’operaio. Trent’anni dopo Dante Slate Jr. (Kevin Hart), figlio del loro antico promoter, decide di mettere su la sfida decisiva costringendo i due a ritrovare la condizione per salire sul ring: Razor verrà aiutato dal suo vecchio allenatore “Lightning” (Alan Arkin) e Kid dal figlio ritrovato B.J. (Jon Bernthal, noto ai più per il ruolo di Shane in The Walking Dead). Peter Segal gioca bene le sue carte sul ritmo sempre elevato che non lascia allo spettatore il tempo di annoiarsi, sfruttando a dovere il carisma dei suoi protagonisti, coreografando un match finale tirato e spettacolare. In alcuni momenti il film risulta sinceramente divertente (la rissa con le tute per il motion capture che diventa immediatamente virale su YouTube) ma il prodotto risulta troppo hollywoodiano nell’umorismo, nelle situazioni e nella morale di fondo per convincere lo spettatore. McDonnen e Sharp sono due archetipi del cinema americano: il primo è il provocatore bastardo e strafottente che in fondo ha solo bisogno di affetto, tutti sappiamo che tornerà a sbagliare, tutti sappiamo che alla fine del film farà la cosa giusta; il secondo è l’eroe solitario che ha abbandonato la lotta solo per una questione di principio e se inizialmente tornerà a combattere solo per soldi, troverà poi, da vero eroe americano, un motivo più nobile e meno venale per risalire sul ring: l’amore per la sua ex fiamma Sally (Kim Basinger). Entrambi sono fuori dal mondo, vivono ancora negli anni ’70, ignorano il progresso tecnologico e, ognuno per i suoi motivi, vedono la loro esistenza cristallizzata in quel match mai disputato. Manieristica, per non dire macchiettistica, la rappresentazione del coach Lightning, vecchio residuato in un'epoca passata tutto boxe e lingua lunga, e del promoter Slate, il tipico nero logorroico, spaccone e completamente privo di gusto. In sostanza una pellicola sicuramente non deludente e a tratti divertente, ma troppo scolastica per lasciare più di un segno superficiale. Da non perdere la scena finale durante i titoli di coda.