Carmine (Carmine Paternoster) è un idraulico napoletano con il vizio del gioco. Pericolosamente indebitato con la camorra decide di organizzare una rapina al caveau di una banca per ottenere i soldi necessari a pagare i suoi creditori. Riunisce così intorno a sé una banda di disperati che comprende Gaetano il ricettatore (Gaetano Di Vaio), l’ex pugile Ruocco (Salvatore Ruocco), il fotografo/scassinatore Sasà (Salvatore Striano) e il malinconico Peppe ‘O Sciomén (Peppe Lanzetta). A dare il titolo alla seconda pellicola del regista napoletano Guido Lombardi - già premiato nel 2012 a Venezia 68 per il felice esordio Là-bas - Educazione criminale – è il jazz composto da Paul Desmond nel 1959 per il Dave Brubeck Quartet. Take Five, brano celebre per il suo ritmo in cinque quarti, è divenuto nel gergo della musica jazz un’espressione sinonimo di una lunga, difficile esecuzione e della pausa che segue ad essa. Per Lombardi, Take Five diventa metafora di un’impresa difficoltosa, non musicale stavolta ma criminale, e rimanda al numero dei membri che compongono il quintetto malavitoso dei suoi protagonisti. Nella banda di disperati di Carmine si scorge l’eco di un delicato omaggio a Mario Monicelli: pur ricordando inequivocabilmente gli improbabili malfattori de I soliti ignoti, il fotografo, il pugile, il romantico sono personaggi accuratamente scritti, autonomi e originali. Mostrandosi affascinato sin dalla prima pellicola – più amara e gangster di questa, un caper movie a tutti gli effetti - dal mondo criminale e dalle dinamiche di formazione di un’identità malavitosa, Guido Lombardi si avvicina in punta di piedi alla commedia nera: si appoggia ai modelli italiani nobili ma attribuendole il ritmo rapido dei film di Steven Soderbergh (la serie degli Ocean’s soprattutto), alternando tragicomiche impennate di genialità criminale e insieme ad essi un ritratto disincantato ma onesto della Napoli contemporanea. Rifiutando il realismo estremo alla Gomorra, il regista – da napoletano di nascita - recupera quel pessimismo ereditato da Eduardo De Filippo e dalla tradizione partenopea colta affidandolo soprattutto ai dialoghi e ai suoi ottimi attori, credibili in quanto in parte interpreti di loro stessi. L’originalità della sceneggiatura di Take Five risiede nell’aver domandato ad ogni attore di mantenere non solo il proprio nome ma anche la propria esperienza personale, sia essa quella di Salvatore Ruocco, ex promessa del pugilato, di Salvatore Striano, volto di Gomorra e dei fratelli Taviani per Cesare deve morire, reduce da un passato criminale così come Gaetano Di Vaio e Carmine Paternoster. Pur non essendo un film perfetto – ancora a tratti ripetitiva l’impostazione del ganster movie, sbrigativo il finale e fin troppo diluito nel comico l’auspicato noir – Guido Lombardi si cimenta in un genere ibrido tutt’altro che semplice, che coinvolge la tradizione italiana quanto quella europea e hollywoodiana e realizza, pur con pochissimi mezzi in un set durato appena sei settimane, un film che omaggia il cinema più di tante pellicole tenute in palmo di mano dalla grande distribuzione.