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Anita B.

17/01/2014 12:00

Aurora Tamigio

Recensione Film,

Anita B.

Puntuale come il rintocco di un orologio in prossimità della Giornata della Memoria, la distribuzione cinematografica si prepara alla commemorazione con una ser

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Puntuale come il rintocco di un orologio in prossimità della Giornata della Memoria, la distribuzione cinematografica si prepara alla commemorazione con una serie di pellicole nuove di zecca: allineate, politicamente corrette, tutt’altro che originali ma perfettamente rientranti nei canoni di un genere che ormai da qualche anno ha rinunciato a colpire lo spettatore con qualcosa di nuovo, preferendo all'approccio storico la divagazione psicologica sempre più romanzata.


1945. Terminata la guerra, la Cecoslovacchia prova a rimettersi in piedi e gli ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio fanno ritorno alle loro case. Fra essi c’è Anita (Eline Powell), orfana di entrambi i genitori morti ad Auschwitz, affidata agli zii Monika (Andrea Osvart) e Aron (Antonio Cupo), incapaci di offrirle l’affetto di una famiglia. Anita compie il viaggio verso casa con Eli (Robert Sheehan), affascinante e sfrontato, di cui si innamora e con il quale affronterà il delicato passaggio dall’adolescenza all’età adulta, con in mente un sogno: raggiungere la Palestina.


A due anni di distanza dall’ultima pellicola diretta, Un giorno questo dolore ti sarà utile (2011), Roberto Faenza – tanto amato dai classicisti del cinema quanto criticato per una regia standardizzata su cifre ricorrenti - torna al grande schermo con un romanzo di formazione ambientato nella Cecoslovacchia post nazismo, piegata dalla guerra e dall’orrore dello sterminio. La timida Anita, unica sopravvissuta della sua famiglia ad Auschwitz, è l’eroina di un racconto tenue che finge di voler narrare la rimozione dell’esperienza nazista nell’Europa orientale comunista, ma finisce in realtà per essere un prodotto ingenuo che incappa nell’errore di trasformare la storia in romance. Il campo di concentramento e la Shoah fanno in Anita B. da sfondo per una vicenda giovanilistica al femminile, in cui l’atmosfera cupa del dopoguerra si trasforma ben presto in un set romantico di poca originalità, ambientato fra le montagne intorno Praga. Faenza esplora poco nel suo film le conseguenze del trauma dei lager sui sopravvissuti, preferendo invece sperimentare ogni cifra del racconto rosa - dalla scoperta dell’amore sino alle conseguenti delusioni e annessi cuori spezzati – con una protagonista che si ispira al personaggio di Sabina in Prendimi l’anima, privata però di molto del suo fascino: banale, quasi da telenovela; un soggetto femminile scialbo in cui fare immedesimare soprattutto le più giovani.


Roberto Faenza è un regista di esperienza pluridecennale, autore di grandi romanzi cinematografici (Sostiene Pereira, Marianna Ucrìa, I Vicerè), dotato di un’abilità particolare nella trasposizione e sempre fornito di notevoli mezzi. A dispetto delle esperienze passate stavolta Faenza sembra sbagliare quasi tutte le componenti della sua pellicola: a partire dal romanzo scelto da adattare (Quanta stella c'è nel cielo di Edith Bruck), una vicenda semiautobiografica già vista che conduce ad una sceneggiatura – scritta dal regista insieme a Nelo Risi - scontata, piena di luoghi comuni filo ebraici che comprendono insieme a pochi riusciti momenti cinematografici (il racconto della cultura yiddish per esempio, meritevole della bella interpretazione di Moni Ovadia) molti vagheggianti, superficiali dialoghi sulla Terra Promessa. Anche nella fotografia, pur avendo lavorato in passato con artisti dell'immagine come Maurizio Calvesi, la scelta di Faenza per Anita B. ricade sul taglio da cartolina di Arnaldo Catinari, a dipingere in definitiva una Cecoslovacchia irreale e asettica, poco postbellica e troppo idilliaca.


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