Eccoli qui gli spettacolari anni ottanta: gli anni del benessere, in cui cambiare vita in un attimo non è utopia. A riportarli come un fiume in piena sullo schermo è ancora lui, Martin Scorsese, che di quegli anni è uno dei protagonisti indiscussi e che fanno da sfondo al suo ultimo lavoro, in un sodalizio professionale (il quinto) con Leonardo DiCaprio, l'attore più bistrattato dall'Academy. The Wolf of Wall Street è un film scomodo. Colossale impresa cinematografica tratta da un libro verità in cui il giovane broker Jordan Belfort, che ha fatto a pezzi i risparmiatori americani arricchendosi alle loro spalle, ha deciso di raccontarsi senza filtri. La trama è un tuffo in bungee jumping nella scapestrata vita dell’esordiente affarista di Wall Street, dalla sua scalata al successo fino al suo successivo declino: milionario a 26 anni, ricercato dai federali a 39. Ma The Wolf of Wall Street è soprattutto un film sprezzante del pericolo e senza alcuna vergogna: si oppone, sfacciato e irriverente, agli occhi dello spettatore attraverso una valanga di personaggi, cliché umani e tutta la gamma possibile di perversioni per descrivere l’ingordigia, tipica di una generazione incosciente e allo sbaraglio economico che forse non incontreremo mai più. Aprendosi con una meravigliosa parentesi su questo psichedelico e ciclonico mondo degli operatori finanziari, Scorsese parte quindi dagli esordi del protagonista, che iniziato alla carriera da Mark Hanna (una manciata di minuti di un meraviglioso Matthew McConaughey), yuppie dai discutibili vizi, acquisisce sempre di più confidenza con dubbie pratiche di vendita e persuasione, fino a diventare sfacciatamente ricco manipolando il mercato. In questo carrozzone circense che è la sua vita - in cui troviamo spogliarelliste, prostitute, animali e nani volanti - si assiste a uno spettacolo dell’assurdo in cui pratiche orgiastiche, viziose ed edonistiche trovano la più alta forma d’espressione e vengono ostentate come se fossero la cosa più naturale al mondo. Viene presentato un Jordan Belfort pivello, appena assunto e poi fatto fuori in seguito al lunedì nero del 19 ottobre 1987 da Wall Street; trasformato in un lupo famelico (così definito dalla rivista Forbes in un articolo) in cerca di soldi, capace di avviare un’attività in proprio in un misero garage e tramutarla in breve tempo in una ricca società, la Stratton Oakmond, arricchendosi a vista d’occhio. Difficile non rimanere estasiati dal gruppo di ritardati che il protagonista ha pescato tra le sue conoscenze più discutibili. Soprattutto se questi bamboccioni dediti a festini a luci rosse, sedativi e cocaina, alcol e turpiloquio hanno in mano le chiavi per le porte del paradiso economico. In questo tsunami barocco e opulento in cui i protagonisti sono privi di controllo è facile, però, perdere lucidità. Jordan dovrà fare i conti con una vita vissuta in barba alle regole affrontando l'inchiesta dell'FBI e le conseguenze della sua dipendenza da alcol e droghe pesanti. Ad emergere in The Wolf of Wall Street è la totale e chiara voglia del regista italoamericano di non preoccuparsi di nulla: della durata, del linguaggio, dei toni e di possibili perbenismi. Il film si dilunga, biascicando in preda alle droghe come il suo protagonista. Non cerca una sua coerenza estetica, una struttura definita, una certa originalità nelle dinamiche. Ciò che intende fare Scorsese è mostrare un mondo, vano in verità, probabilmente con quel finto innocente candore dei suoi protagonisti, invischiati in realtà fino al collo. La materia narrativa diventa funzionale a un prodotto che cerca di esasperare quanto di più immorale, cinico e morboso hanno prodotto gli anni ottanta, senza volgere a una qualsivoglia forma di espiazione o pentimento (diversamente dalla tendenza dei precedenti lavori del regista, in cui alla fine, il protagonista si riscatta agli occhi dello spettatore). Questo egoismo registico è comunque godibile: grazie a dialoghi davvero divertenti il ritmo incalzante, maschilista e allucinogeno funziona a meraviglia. Il film riesce a correre per quasi tre ore senza grossi intoppi, peccato solo per il ripetitivo scambio di battute già proposte, alcuni giochi temporali più volte utilizzati e descrizioni prolungate che possono risultare grevi, ridondanti. Una scelta che non va a discapito dell'irresistibile registro ironico, così come, nonostante tutto, non si riesce a voler male a quel cattivo ragazzo interpretato da Leonardo DiCaprio, perfettamente a suo agio nel ruolo così sgangherato, truffaldino, sporco, ma anche estremamente vitale e gaudente. Talmente presente in quel tempo e in quello spazio da coinvolgere lo spettatore nei suoi giochi perversi, senza essere minimamente biasimato per le sue azioni. The Wolf of Wall Street verrà ricordato anche per l'ottimo lavoro dello sceneggiatore Terence Winter - non è usuale che un film zeppo di volgarità e parolacce riesca a esprimersi toccando registri più introspettivi, quasi filosofici - e per la colonna sonora che si adatta in maniera strepitosa alla schizofrenia generale (da Mrs Robinson dei Lemonheads a Umberto Tozzi con Gloria). Il cameo del vero Jordan Belfort rappresenta il massimo del cinismo: Scorsese non ce la fa a condannare i suoi cattivi ragazzi e completa, con una beffa, l'affresco sul delirio d'onnipotenza e sulla paura della noia. Questa terribile noia che ci rende sobri, ricchi ma sorprendentemente soli.