
Francesco (Marco Giallini) è uno psicanalista che si trova alle prese con i tre casi più importanti della sua vita: le sue figlie. Sara (Anna Foglietta) è lesbica, vive a New York ed ha deciso di diventare eterosessuale dopo l’ennesima delusione amorosa; la romantica Marta (Vittoria Puccini) si innamora di un ladro di libri sordomuto ed Emma (Laura Adriani), diciottenne, è fidanzata con un cinquantenne. Diviso tra la professione e il ruolo di padre, Francesco proverà a comprendere la mente ed il mondo delle tre amate figlie, ormai diventate delle complicatissime donne. Con alle spalle pellicole di successo (La banda dei Babbi Natale, Immaturi) e nel recente passato una carriera di sceneggiatore al fianco di Leonardo Pieraccioni, Paolo Genovese ritorna al grande schermo con un film corale, dedicato ai più romantici, che raccoglie il meglio degli interpreti del cinema nostrano, volti nuovi e attori brillanti. Confidando a ragione in prove consolidate come quella di Marco Giallini e Alessandro Gassman, e affidando libertà comica a rivelazioni recenti come Anna Foglietta, Vittoria Puccini o Vinicio Marchioni, Genovese dirige un film citazionista ma gradevole, che saccheggia il meglio del repertorio della commedia di tema psicanalitico italiana e internazionale. Il modello più lampante è di certo quello alleniano: fulcro della vicenda è lo studio dell’analista Francesco, che riunisce i personaggi al centro della scena come sotto l’unico riflettore di un palcoscenico teatrale in cui essi possono esprimere il proprio potenziale recitativo, talvolta verboso ma in più di un momento semplicemente divertente. Per ottenere questo risultato il regista si serve di un cast numeroso e variopinto, in cui oltre alla rosa di protagonisti, anche i cammei sono affidati ad abituè della commedia (Claudia Gerini) o a volti consacrati di una tradizione comica più o meno nobile (Maurizio Mattioli). Come già era stato per Immaturi, il talento di Genovese di mettere insieme - in vicende corali - attori drammatici e comici trasforma i suoi film in situazioni familiari, popolate da volti riconoscibili e animate da una scrittura agile e moderna, emulativa della comedy hollywoodiana come del sentimentalismo chiacchierato alla francese. Insieme a questa vocazione romantica, Genovese ha già mostrato in passato di essere un minuzioso amante del dettaglio estetico, attento ad affiancare ad una colonna sonora suadente una fotografia impeccabile e scenografie studiate. Rifuggendo la tendenza italiana a produrre film non solo privi di contenuto ma anche sgraziati, il modello che il regista ricalca è quello del favolismo trasognato in stile Soldini, con belle riprese cittadine e qualche virtuosismo nell’inquadratura. Ancora nulla si può, certo, di contro alla banalità di alcune sequenze e all’eccessivo miele profuso qua e là a coprire i vuoti narrativi (e l'eccessiva lunghezza del film), ma è sicuro che Paolo Genovese fa parte del limitato gruppo di autori a cui è ancora affidato l’intrattenimento cinematografico all’italiana, altrimenti destinato già da anni alla volgarità o alla demenzialità . I dialoghi di Tutta colpa di Freud non hanno l’arguzia di Woody Allen né il ritmo delle sceneggiature della compianta Nora Ephron, ma sono costruiti a pennello per valorizzare la maschera che ognuno degli interpreti indossa e per creare situazioni quotidiane e leggere, perfetti ingredienti di una "commedia italiana del sabato sera" il cui solo scopo è, per l’appunto, l’entertainment.