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The Act of Killing - L'Atto di Uccidere

27/01/2014 12:00

Riccardo Tanco

Recensione Film,

The Act of Killing - L'Atto di Uccidere

“Uccidere è proibito, quindi tutti gli assassini vengono puniti, a meno che non si uccida su larga scala e al suono delle trombe”...

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“Uccidere è proibito, quindi tutti gli assassini vengono puniti, a meno che non si uccida su larga scala e al suono delle trombe”. Si apre con questo aforisma di Voltaire The Act of Killing, opera che trascende e oltrepassa i limiti del documentario e si pone come un film di impressionante grandezza e di sconvolgente visionarietà. Nel 1965 il governo indonesiano viene rovesciato da un colpo di stato militare. Qualunque nemico dello stato veniva tacciato come comunista e ucciso. Per perpetrare questi omicidi il nuovo governo si affidò a gruppi di paramilitari e gangster che compirono eccidi non solo delle persone di ideologia comunista ma sterminando anche la popolazione di etnia cinese. In totale si contano più di un milione di vittime.


Il regista statunitense Joshua Oppenheimer ha chiesto a distanza di 47 anni agli stessi assassini non solo di raccontare le loro gesta ma di replicare il modus operandi dei loro omicidi. La storia la scrivono i vincitori. Nel caso specifico la reinterpretano. Due dei principali artefici delle stragi nel 1965, Anwar Congo ed Herman Koto, leader dei gruppi paramilitari che negli anni 70 compirono i genocidi e ora membri apprezzati della società, decidono con orgoglio sprezzante di raccontare le loro imprese, la loro epica storia per far capire alle nuove generazioni come sono andati gli eventi. Colpisce in maniera violenta The Act of Killing, mostra ciò che non si può mostrare. Nel vedere il lucido menefreghismo con cui i veri assassini ricordano e replicano le loro azioni, lo spettatore non può rimanere indifferente, anzi è obbligato,quasi costretto ad assistere a questa recita mistificatoria della verità. Fa ancora più male vedere il divertimento crudele e folle che questi gangster provano nella realizzazione del loro film. Cercano i set, reclutano gli attori tra la gente comune, trovano i costumi più idonei. Una replica, una riproposizione scenica che è celebrazione e ricordo. Anwar Congo ed Herman Koto desiderano girare un film all'americana, citano tra i loro riferimenti e tra le pellicole che più li hanno influenzati i mafia movie con Al Pacino e Marlon Brando, fino a James Bond. Nessun senso di colpa, nessun pentimento da parte dei gruppi militari, braccio armato della dittatura. Forti della loro posizione e non più condannabili si ergono oltre la legge, si giustificano con motivazioni politiche e non chiedono perdono perché “i comunisti andavano sterminati”. The Act of Killing attraversa la realizzazione del film tra aneddoti agghiaccianti dei protagonisti e la loro perversa gioia nel rivivere omicidi in cui migliaia di persone vennero trucidate.


Per quanto doloroso, rimane un'opera necessaria sul cinema e sul suo valore di simulazione, e su quanto possa essere frainteso. Crea un disturbante corto circuito fruitivo assistere alla reinvenzione di atti brutali come se stessimo visionando un film di gangster, un western alla John Wayne o un musical. Si resta atterriti di fronte alla nonchalance di Anwar e colleghi a quello che stanno filmando, personaggi e registi stessi della loro colpa ma che essi considerano giusta e meritevole di essere vista, di essere cinematografica. Il dubbio che Oppenheimer abbia manipolato le situazioni e abbia reso The Act of Killing un qualcosa di programmatico viene spazzato via immediatamente. Il regista si limita a vedere, non dà giudizi, non pone domande, lascia che il flusso filmico faccia il suo corso. Non c'è orrore né moralità nei carnefici. E il film pare uscirne irrimediabilmente battuto, distrutto dal suo stesso materiale. Ma l'atto di vedere è molto più potente dell'atto di uccidere. L'occhio, il (ri)vedersi, il recitare nei panni della vittima, il cinema che doveva essere epica si fa moto di coscienza, movimento di consapevolezza inaspettato, la finzione si impone più forte della realtà, il falso diventa strumento per capire la verità. E forse il senso di tale opera sta proprio negli occhi pieni di lacrime e nei conati di vomito di Anwar, che non ha mai compreso finché non ha potuto vedere.


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