Dalla penombra di un borgo rurale del sud Italia emergono dei forestieri. Dante (Francesco Siciliano), Gianni (Gianluca Di Gennaro), Agostino (Massimiliano Gallo) e Diego (Michael Schermi) intendono rubare la statua della Santa: per i paesani si tratta di un oggetto venerato e rappresentativo del loro culto religioso di inestimabile valore, per i ladri un lavoretto fin troppo facile servito su un piatto d'argento. Ma le reazioni imprevedibili della gente successive al furto mettono a rischio l'incolumità dei quattro malviventi. Mai come in questo caso sopravvivere diventa una questione di fede. Giovane rappresentante – insieme a Federico Zampaglione e pochissimi altri – del moderno cinema di genere made in Italy, Cosimo Alemà dirige una storia bizzara, fuori dal tempo, dallo spazio e dalla ratio legis. Se nel fulminante esordio cinematografico (At the end of the day) il regista si era appropriato dello slogan "la guerra non è un gioco" per generare un istant movie da una partita all'aperto di softair, ne La Santa la guerriglia urbana diviene metafora del fanatismo religioso, a cui è ascrivibile la colpa di essere la principale causa di genocidi nella storia dell'umanità . Il regista e sceneggiatore continua in questo senso la sua analisi sociale contro la violenza per mezzo della violenza, con coerenza scenografica e citazionista, utilizzando come unico linguaggio filmico l'istinto di sopravvivenza. Ne La Santa il concetto di sudditanza scomoda la fede in forma traslitterata, insediata nei meccanismi di paura-sopraffazione di una caccia agli eretici in cui le prede si mischiano ai cacciatori. In questa cornice medievale improba e sadica, la sceneggiatura mostra le sue debolezze, rea di preferire spesso e volentieri impulsi reazionari fini a se stessi che, per effetto farfalla, delegittimano la critica contro l'accecante ecumenismo dell'operazione. Svuotato della sua carica erotica, primordiale e grottesca, al film viene sottratta l'energia vitale del non detto e l'azione su schermo perde di attrattiva semiotica. Rimane però l'abilità tecnica del suo manipolatore, consolidata da una valanga di spot e videoclip su commissione. Anche in questo secondo lavoro il regista ricrea una mitologia ghettizzata e perversa che costeggia il mondo reale – nella materia e nella generazione elementare di causa-effetto – mentre si dissocia dalla logica pragmatistica e dallo spirito di fratellanza del buddy movie. Ancora più mistificatore ed ermetico di At the end of the day, nel secondo lungometraggio di Cosimo Alemà - che dimostra di aver maturato un identitario stile cinematografico - si avverte la mancanza di una sceneggiatura tagliente e rifinita che interpreti metaforicamente, più di quanto non faccia già , gli spunti filosofici della storia oltre a un cast di coprimari (e coprotagonisti) maggiormente calati nelle rispettive parti borderline. Esattamente come nella realtà , alla fine sfugge il senso dell'azione, ma almeno la lezione più significativa è stata assimilata: «Quando viene dichiarata una guerra, la prima vittima è la Verità » (Arthur Ponsonby).