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Tango Libre

11/02/2014 12:00

Erika Pomella

Recensione Film,

Tango Libre

In ambito cinematografico il tango viene spesso utilizzato come rappresentazione fisica di brucianti passioni, di feroci tradimenti e di gelosie assassine...

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In ambito cinematografico il tango viene spesso utilizzato come rappresentazione fisica di brucianti passioni, di feroci tradimenti e di gelosie assassine. Un ballo scatenato dalle più alte fiamme delle emozioni umane, utilizzato soprattutto per sovrastare e dominare qualcun altro. Il regista Frédéric Fonteyne, con il suo Tango Libre ribalta il concetto: si serve della danza come forma di autodeterminazione, come strumento di costruzione esistenziale. Attraverso passi ritmici e movimenti studiati al millimetro, Fonteyne dipinge il ritratto di personaggi che hanno bisogno di ritrovare una propria identità specifica, un’umanità unica che non debba sottostare a regoli e ordini sociali e civili.


JC (François Damiens) è un uomo dalla vita apparentemente tranquilla. Tutte le sere torna nella sua casa silenziosa, dove ad aspettarlo c’è solo il suo pesciolino rosso. Ma JC ha anche un hobby che lo riempie di gioia: il tango. Una volta a settimana l’uomo si reca in una scuola di ballo per liberarsi un po’ dai suoi pensieri ed è in quella sede che fa la conoscenza della misteriosa Alice (Anne Paulicevich). Il secondo incontro avviene nella prigione dove lui lavora come secondino; scopre infatti che la donna fa regolarmente visita a due uomini accusati d’omicidio: il marito e l’amante. Un menage à trois che in nessun modo sembra disposto ad accogliere un quarto elemento.


Tango Libre è una pellicola che tratta personaggi e situazioni in maniera mai banale, soffermandosi sul bisogno dei caratteri messi in scena di uscire dalle costrizioni della vita, da una quotidianità che molto spesso è deludente. Il ballo in questo senso – e più in generale la musica – si trasforma in una valvola di sfogo, una via di accesso privilegiata ad un mondo altro, dove l’eccentricità di Alice e il carattere schivo di JC diventano solo dei fardelli da lasciarsi alle spalle, in nome di una libertà spirituale a lungo ricercata. Il regista Frédéric Fonteyne lascia che sia proprio la musica a concretizzarsi in una sorta di personaggio aggiunto, deus ex machina che tutto rende possibile e tutto risolve, anche quelle situazioni che sembrano troppo ingarbugliate per giungere ad una risoluzione. Eppure, nonostante questa scelta precisa, Fonteyne non permette mai alle scene musicali di prendere il sopravvento, non le rende in sostanza un leit motiv ridondante, piuttosto si adagia su un equilibrio ben studiato di scrittura (a cura di Philippe Blasband con la collaborazione della protagonista Paulicevich) e declinazione filmica, che pone le sue migliori qualità sulla capacità di non concedersi a facili sproloqui. Un velo di parole non dette cala tra i personaggi, cooperando alla costruzione di un mondo diegetico dove anche i silenzi, così come la musica, hanno valore disvelatorio. Peccato per il finale un po’ troppo affrettato e a tratti poco credibile, in cui si perde gran parte dell’eleganza che, al contrario, caratterizza tutto il film.


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