
Claudin (Claudine Spiteri), storica dell’arte di Hieronymus Bosch, e Chris (Chris Nightingale), ingegnere navale che analizza le gondole veneziane, innamorati e pieni di passione, decidono di partire per Venezia per compiere un viaggio alla scoperta del pittore fiammingo, della sua arte visionaria, della spiritualità e della bellezza. Mentre per Claudine, ammalata di cancro, sarà l’occasione di introdurre l’amato a quello che per lei è la più vicina rappresentazione del Paradiso mai dipinta, Chris riprende ogni cosa con la sua telecamera per non perdere nemmeno uno degli ultimi momenti con lei. Dell’arte di Hieronymus Bosch – il più eccezionale tra i pittori fiamminghi per inventiva e visionarietà – è stata detta ogni cosa. Che fosse un predestinato, che conoscesse la psicanalisi secoli prima che essa fosse inventata, che sia stato il primo surrealista, che nei suoi dipinti fossero celati misteri che secoli di storia dell’arte non sarebbero stati in grado di svelare. Pur da ridimensionare nei necessari limiti, ognuna di queste affermazioni rende solo in parte l’idea della suggestione che le tavole dipinte da Bosch esercitarono sui pittori a venire - persino su Salvador Dalà e su René Magritte - e della fascinazione che ancora oggi hanno sugli artisti contemporanei, anche su quelli che hanno scelto la Settima Arte - nel suo nodo più concettuale - come Lech Majewski. In Italia il regista polacco è noto (e neppure a molti) soprattutto per I Colori della Passione - film del 2011 che omaggia un altro pittore fiammingo, Pieter Bruegel – una pellicola trionfo di critica che pure ha visto proiezioni millesimate in poche sale indipendenti. Stessa sorte è toccata a questo eccezionale Il Giardino delle Delizie, un’opera che in realtà precede di sei anni il film del 2011, è che solo ora trova distribuzione limitata in Italia. Tralasciando i tempi di fruizione lenti del pubblico, Majewski è un’istituzione del cinema d’artista. Già nel 2006, infatti, lo schizzinoso MoMA di New York gli dedicava un’incantata retrospettiva mentre le giurie di alcuni dei più prestigiosi festival cinematografici di tutto il mondo lo decretavano uno dei più interessanti registi del momento. La filmografia di Lech Majewski mette in discussione la definizione stessa di cinema, presentandosi con intenzioni enciclopediche che sembrano voler riunire in una sola tecnica suggestioni provenienti da tutte le arti, soprattutto quella visiva, ma anche la letteratura, il teatro e la musica. Nonostante I Colori della Passione sia probabilmente il più affascinante, Il Giardino delle Delizie è il film più importante di Lech Majewski, l’unico del quale egli cura non solo la regia ma anche il soggetto - tratto dal proprio romanzo Metaphysics - la sceneggiatura, la fotografia e il montaggio. Potendo definire Il Giardino delle Delizie come una performance lunga poco più di cento minuti, il film è da considerarsi un compendio di potenza estetica, bellezza e citazionismo pittorico, svolto con una tecnica cinematografica sporca e instabile, che fa della telecamera del protagonista Chris la telecamera registica e delle immagini visionarie di Bosch le proprie immagini. Majewski si diverte senz’altro a giocare con le fantasiose trovate dell'artista fiammingo - a tratti inquietanti, sempre sbalorditive - inserendo nel proprio film immagini che sono quelle che il pittore utilizza nell’eccezionale trittico a cui Il Giardino delle Delizie si ispira: dal più simbolico rospo sul petto della donna, a idee che anticipano le tendenze artiche novecentesche come il pentagramma dipinto sulle natiche o l’utilizzo di materiali come la plastica e il nylon per rappresentare il gruppo degli amanti nella luna trasparente. Il tributo di Majewski non si limita ad una trasposizione formale: la vera forza del regista polacco risiede nell’aver saputo declinare in forma cinematografica l’eccesso, il visionario ma soprattutto il gusto per il grottesco e lo scandaloso di Bosch. Non solo nella riproduzione delle immagini pittoriche, ma soprattutto nella rappresentazione realistica e sofferta di un amore terrestre – fatto di materia, di erotismo, di sentimenti dolorosi – risiede il centro di un’opera che tende al trascendentale e attraversa il tema della morte, del decadimento fisico, dell’orrore e dove Venezia, come da tradizione (non solo cinematografica), è il set perfetto di un requiem.