Aaron (George MacKay), a seguito di un fatale incidente di pesca in cui muoiono tutti i suoi compagni incluso il fratello, risulta essere l'unico superstite. Nella visione della piccolissima comunità il cui il dramma ha luogo, un microcosmo abitato prevalentemente da pescatori nel nord-est della costa scozzese, Aaron è anche il solo responsabile cui attribuire il luttuoso evento, fedelmente a un codice di superstizione e ignoranza difficilmente estirpabile da menti così grette e bigotte, pronte a scattare con violenza, ad aggredire l’incolpevole ragazzo, a puntare rabbiosamente il dito e metterlo alla gogna. Egli è però deciso a provare la propria innocenza agli occhi di tutti, e la parallela convinzione che il fratello non sia morto come tutti credono lo porterà inesorabilmente alla follia, a tentare più e più volte l’abbandono a quello stesso mare da cui gli eventi hanno preso vita, inghiottendo la sua vita e la speranza anche solo possibile di un perdono e di una riabilitazione sociale. Il film di Paul Wright è un’opera emaciata come il suo protagonista, gelida e grigia, che trae gran parte del proprio fascino da un’ambientazione azzeccatissima e propedeutica al racconto. Una storia di spettri e legami uterini che non si sono spezzati del tutto, di cordoni non recisi e psicopatie che si accostano all’ineluttabilità del rigor mortis. Come nella tragedia classica, c’è una colpa da espiare solo ipoteticamente, che poi nei fatti non può essere lavata via da niente e da nessuno. Aaron e il fratello si ridurranno, in una delle tante scene metafisiche e oniriche del film, "come pesci rossi che volevano che le luci indicassero loro la strada" ma che non ce l’hanno fatta, affogando nella miseria di un destino avverso. Il superstite tocca temi elevatissimi poggiando non di rado su corde sperimentali, tra allitterazioni di senso e di sguardo (le immagini dell’inizio, filmini familiari amatoriali che ritornano in loop) e spunti narratologici molto interessanti. Linee ora rette ora sparigliate che frammentano i punti di vista e trascinano lo spettatore in un vortice raggelante e grottesco, tra lampi abbaglianti (la balena arenata del finale, impregnata di sangue) e fantasmi d’ogni genere, al punto da non sapere più nemmeno se trattasi di ombre allegoriche o di presenze soprannaturali reali. Il mare, ne Il superstite, è magico ed esoterico, quel simbolo che in Virginia Woolf era identificato con la maternità e che qui non fa altro che amplificare la condizione misterica e in larga parte insondabile di storia e messinscena. Una visione delle cose in cui l’immagine è un oggetto fisico come un altro, soggetto a manipolazione e deterioramento, il cui smembrarsi coincide col venir meno della psiche del protagonista. È però proprio in quest’ultimo terreno che il film di Wright un po’ s’inceppa e in parte estingue una porzione non indifferente del suo potenziale. Man mano che il climax si concretizza, infatti, il dramma scade nella deriva estetizzante, nell’esposizione grossolana di venature isteriche e teratologiche in cui la mostruosità diventa, per inerzia e un po’ pretestuosamente, il solo parametro accettabile. La variante fratricida della storia (o leggenda?) di Agrippina e Nerone si traduce così in un caleidoscopio di visioni cerebrali che alla lunga si sgozza da solo, dandosi in pasto all’oceano e smarrendo la via maestra nel corso del suo stesso cammino. La malia resta, ma sopravvive insieme a uno spaesamento e a un vuoto di significato nient’affatto positivi e forse nemmeno cercati, per lo meno non in questi termini.