Ormai nota anche alla cultura occidentale, la figura del ronin, il samurai senza padrone, esercita un fascino universale, rientrando pienamente in un ideale di eroe romantico che non conosce confini geografici. Allo stesso tempo però, il ronin è una figura che si integra in un contesto - quello del bushido e più in generale della cultura giapponese - che non è pienamente intellegibile da un occidentale e presenta un interpretazione del concetto di onore portato a limiti estremi, che trascendono anche il rispetto per la vita. I 47 ronin ai quali si è ispirato Carl Rinsch per la realizzazione della pellicola sono figure realmente esistite, guerrieri che nel diciottesimo secolo sfidarono l’autorità dello shogun per rispettare i dettami del bushido, che imponeva loro di vendicare la morte del loro padrone. Nella riproposizione filmica, il protagonista è Kai (Keanu Reeves) un mezzosangue accolto da bambino nella corte del feudatario Asano e innamorato fin da bambino della figlia di questi, Mika (Kou Shibasaki). In occasione della visita dello Shogun nel paese di Asano, Lord Kira, feudatario rivale, architetta una cospirazione insieme alla strega Mizuki (Rinko Kikuchi) che ha come esito la morte del rivale e la dispersione dei suoi samurai, capitanati da Kuranosuke Oishi (Hiroyuki Sanada). Il senso di giustizia e il desiderio di vendetta portano Oishi a radunare nuovamente i suoi samurai e chiedere aiuto anche a Kai, con l’intento di uccidere Kira e riportare l’onore e la pace nel regno che fu di Asano, nella consapevolezza che l’impresa, anche in caso di successo, porterà loro soltanto una morte onorevole. Il Giappone feudale proposto da Rinsch si tinge di sfumature fantastiche e magiche: ad una serie di rimandi storici più o meno accurati, il regista americano aggiunge creature mitologiche, sette segrete e incantesimi, ottenendo un risultato che strizza l’occhio tanto a Il Signore degli Anelli che a 300, con richiami evidenti a celebri film della moderna cinematografia orientale, come Hero o La foresta dei pugnali volanti. Il tentativo di proporsi come film dal sapore orientale è palesato anche dai ritmi lenti e dilatati della narrazione, che però non coglie appieno lo spirito delle opere orientali e denuncia la propria natura occidentale costruendo una storia che è molto più legata al topos dell’amore impossibile che alla volontà di riscatto dell’onore infangato. La storia dei samurai decaduti avrebbe probabilmente meritato una trasposizione dal maggiore impatto epico e un taglio più personale, ciononostante e malgrado risulti davvero molto lungo e a tratti troppo lento, 47 Ronin non è un esperimento fallito: accettati i compromessi di sceneggiatura che rendono un po’ semplicistici alcuni passaggi, sul piano estetico la resa è efficace, complici paesaggi bellissimi e un uso piuttosto bilanciato degli effetti speciali. Anche gli attori e i relativi personaggi, sebbene sicuramente risultino monodimensionali e stereotipati, sono coerenti con le proprie premesse e richiamano alla memoria, sia per la resa che per le situazioni che si trovano a vivere, figure classiche dei film in costume degli anni ottanta e novanta.