Ugo (Walter Leonardi) è un quarantenne appassionato di poesia e sfortunato con le donne che trascorre le sue giornate girando in bici per Torino e vivendo, senza soldi né lavoro, in una vecchia villa ereditata. Con lui, i due coinquilini Maria (Manuela Parodi), aspirante attrice che lavora in un'agenzia di viaggi e sogna il vero amore, e Dario (Eugenio Franceschini), laureando precario in un bioparco, dovranno presto affrontare – nonostante le diversità caratteriali e stili di vita opposti - l’ipoteca che minaccia di portarli via alla loro casa e un futuro comune sempre più incerto. La metafora del 45° parallelo è un concetto che Davide Ferrario ha utilizzato sin dai suoi esordi cinematografici - a metà degli anni novanta - per raccontare l’amata Torino, una città in equilibrio in punto del mondo che la rende luogo d’elezione in cui ambientare storie e vicende personali precarie e sospese. Se il suo fascino misterioso, l’eleganza e l’aspetto retrò hanno convinto a lungo anche registi come Silvio Soldini, è Ferrario a fare della rappresentazione del capoluogo piemontese un vera cifra stilistica, una dichiarazione d’amore così appassionata da dimenticare talvolta di abbinare alla raffigurazione del suo soggetto privilegiato una trama che sia una storia vera e propria. A nove anni di distanza da Dopo mezzanotte, il regista recupera quell’ambientazione crepuscolare in una scia di rimandi al cinema d’autore, italiano soprattutto, per una storia che, per quanto graffiante e divertente, di fatto non aggiunge nulla di nuovo al panorama nostrano sul tema dell’assenza di stabilità della generazione dei nuovi giovani. Se nel seguire il suo protagonista in bici per le vie di Torino, dissertare con gli anziani come con le donne di poesia, politica e società , Ferrario sembra avere in mente il migliore Nanni Moretti (quello della divagazione dei settanta), le atmosfere magiche e sospese – persino un po’ prive di determinismo causa/effetto – rimandano a Maurizio Nichetti e ad un cinema italiano che definiremmo oggi "indipendente", riducendo in questa definizione autori che non vi si inseriranno mai del tutto. Persino La luna su Torino è una pellicola difficile da ridurre a tale categoria, nonostante la scelta – diversamente dal passato – di attori esordienti, di una colonna sonora curata da uno degli autori della musica indie italiana (Dente) e di una tecnica cinematografica sporca che mostra poca cura per l’immagine bella e inquadrata e vi preferisce invece un approccio, corrispettivamente, instabile. Di originale nella pellicola di Ferrario c’è un nuovo modo di trattare la coralità , come singole storie che si sfiorano ma rifiutano di intrecciarsi, e un’attenzione ritrovata al testo scritto, con dialoghi che divertono e celano un’acutezza quasi letteraria. È nella gestione totale della trama che il regista pecca lievemente di pigrizia, limitandosi ad una vicenda che è – a parte la pretesa di metafora – infine solo una limitata storia di precarietà contemporanea già vista e già affrontata al cinema come in televisione. I tre personaggi, maschere note, non riescono nonostante le citazioni colte e il botta/risposta arguto, a restare impressi sullo schermo come veri protagonisti ma si connotano piuttosto come pedine di un racconto che celebra prima di tutto il filosofeggiare con tendenze autorialiste, a lungo andare, un po’ sterili.