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In grazia di Dio

29/03/2014 12:00

Aurora Tamigio

Recensione Film,

In grazia di Dio

Capo di Leuca...

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Capo di Leuca. La crisi economica costringe Adele (Celeste Casciaro) a chiudere la piccola azienda tessile che da anni conduce con suo fratello Vito (Amerigo Russo). Quando quest'ultimo parte per la Svizzera, Adele resta sola in Salento con la sorella Maria Concetta (Barbara de Matteis), più giovane e sognatrice, e la figlia Ina (Laura Licchetta), spensierata ma in perenne conflitto con la madre. Le donne decidono così di trasferirsi a casa della matriarca Salvatrice (Anna Boccadamo) dove, coltivando e riappropriandosi di quella terra selvaggia e bella, troveranno un nuovo inizio.


A diciassette anni di distanza dall’esordio cinematografico con Pizzicata, Edoardo Winspeare – origini austriache ma radici ben affondate in terra pugliese – torna a raccontare l’amato Salento in una storia tutta al femminile che viaggia à rebours, controcorrente rispetto alle scelte più comuni, al miraggio minaccioso di dover abbandonare la terra natia per andare altrove. Se già in Sangue vivo e Il miracolo il regista iniziava a tracciare una linea tematica che aveva nell’estremo sud d’Italia, nelle radici della penisola, il suo fulcro di interesse non solo estetico e sentimentale, ma quasi antropologico, In grazia di Dio recupera quei motivi ricorrenti e li espande ad un racconto corale di donne, metaforico quanto basta per caricarsi di significati ancestralmente legati alle origini, alla terra. È soprattutto il personaggio di Adele - reso con grande fascino attraverso l’interpretazione carismatica di Celeste Casciaro, bellezza genuinamente sentimentale e patetica - che la figura della donna protagonista assume grande risalto e potenza scenica, quasi a simboleggiare essa stessa, con il suo sguardo duro ma caritatevole e la rude sensualità, quel Salento che mai prima il regista aveva raffigurato così selvaggio e crudele.


Rispetto alle pellicole precedenti, In grazia di Dio mostra intenzioni e significati molto più ambiziosi e, per questo, anche più offuscati che nei film passati. Se infatti gli attori, esordienti e locali, sono in qualche caso un asso nella manica – oltre alla Casciaro, la matriarca Boccadamo –, a discapito delle interpreti, i personaggi del film, intrisi di volontà simboliche e caratterizzazioni nette, appaiono spesso troppo stilizzati (quasi a ricordare le maschere dei drammi verghiani di due secoli fa) e le loro recitazioni, insistentemente intinte, non senza una certa volontà citazionista, in uno stile neorealista davvero fuori epoca. Per quanto In grazia di Dio voglia essere in tutto e per tutto un film che attraversa il tempo, e anche lo spazio, ambientandosi in una terra in cui gli orologi e i calendari non sembrano esistere, e dedicandosi a ricostruire i cocci di una civiltà dimenticata, laddove questo intento abbandona gli stilemi della poetica e coinvolge anche i tempi cinematografici, i 127 minuti di durata appaiono eccessivamente ingombranti. Così come il ritmo, che Winspeare deduce nel suo stile registico in parte dagli anni di esperienza documentaristica, conferisce un’attenzione particolare rivolta all’osservazione e all’ascolto, e inevitabilmente richiesta anche allo spettatore. Un’attenzione che poteva essere allentata a tratti in favore di un ritmo meno contemplativo e più adatto al grande schermo.


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