Una misteriosa tata che ha scattato in completa segretezza un numero impressionante di fotografie: centomila in totale, ritrovate dopo anni e anni, tanto da farla ritenere, oggi, uno dei fotografi più importanti del XX secolo. Vivian Maier è uno dei rompicapi artistici più intricanti e affascinanti della contemporaneità , che i registi John Maloof e Charlie Siskel, autori anche del soggetto del film, si preoccupano umilmente di provare a risolvere. Ma si tratta di una matassa non facile, legata a doppio filo a un mucchio di forme espressive tra loro dialoganti (fotografie, filmati) ma tutt’altro che concordi nell’attribuire a questa donna oscura delle connotazioni definite. I due si mettono allora alle calcagna di coloro che la conoscevano o, per meglio dire, si illudevano di conoscerla. Con risultati sorprendenti. Alla base di Alla ricerca di Vivian Maier c’è un’istanza comune a molto cinema documentario contemporaneo (se così ci si vuole ostinare a definirlo, in maniera di sicuro tradizionale e probabilmente ormai sorpassata): lo spiazzamento per l’identità in frantumi. Si pensi a Sugar Man, che si metteva sulle tracce di un musicista dimenticato da Dio e dal mondo riuscendo nell’impresa di riabilitarlo, con sommo stupore di chi si ritrovava a guardare e ad ascoltare un prodigio musicale negato dalla Storia ufficiale, fagocitato da un’epoca vorace come poche altre di splendidi talenti da immettere nel suo tritacarne. O all’agghiacciante L’impostore, da poco uscito nelle nostre sale con ben due anni di ritardo: il quadro impazzito di un mentitore in bilico tra verità e falso spudorato, capace di ingannare chiunque appiccicandosi addosso un’identità non sua. Anche in questo caso, l’identità è un puzzle da provare a ricomporre per mezzo di svariate testimonianze filmate che dovrebbero servire a mettere ordine, a districarsi nel relativismo confuso di un mistero apparentemente insondabile. Il trattamento riservato in questo film a Vivian Maier non è da meno. Ne emergono infatti i tratti mitologici (l’altezza di più di due metri, l’accento francofono che ostentava con chi la conosceva pur essendo nata a New York), le abilità tecniche e le stranezze: giusto per dirne una, usava una Rollerflex per fotografare senza essere vista dalla folla, occultando la macchina fotografica tra i suoi stessi vestiti. Proprio come era solito fare un giovanissimo Stanley Kubrick quand’era alle prese con i suoi primi scatti. Una donna ossessionata dal collezionare oggetti capaci di immortalare la memoria del presente e proiettarla nel futuro: nel suo archivio ben 150.000 filmati in super 8 e migliaia e migliaia di foto. Della cosiddetta "street photography", dopotutto, è ancora oggi ritenuta un’esponente indiscussa. Il documentario mostra molto di lei attraverso i meccanismi della detection, dell’investigazione sobria e non appariscente ma appassionata e dettagliata. Gli autori stessi considerano Vivian Maier, o chi per lei (era solita presentarsi con nomi diversi tante quanti erano i gruppi di persone che conosceva), al pari di Man Ray o Henri Cartier-Bresson, e non solo i soli. Ma non si sottraggono dal catturarne i lati meno nobili, più violenti e scomodi (emersi quando faceva la babysitter, ad esempio, stando ad alcuni racconti): la bellezza del loro lavoro sta nell’inoltrarsi senza troppe remore in territori viscidi e rabbrividenti, nei quali la molteplicità delle ricostruzioni e delle prospettive intorno a una singola personalità , per altro rilevante, diventa simbolo costante di una crisi di valori e di appigli, in virtù della cui assenza ogni angolo del reale diventa assoggettabile a un sacrosanto dubbio metodologico. Una consapevolezza terribile, ma lucida e importante. Non sottrarsene non può che essere un lodevole atto di coraggio.