La sedia della felicità rappresenta uno dei rari casi in cui non è impossibile prescindere dal contesto in cui una pellicola arriva al cinema. Dopo essere stato presentato al Torino Film Festival del 2013, la pellicola debutta in sala a tre mesi dalla scomparsa prematura del suo regista, Carlo Mazzacurati, rappresentando di fatto il lascito a cui viene affidato, involontariamente, il compito di racchiudere il lavoro di tanti anni di onorata carriera. Una missione, questa, ingrata e ingiusta; perché La sedia della felicità meriterebbe di essere considerato come un prodotto cinematografico a sé stante, che non debba cioè addossarsi il peso di un testamento stilistico. La storia è quella di tre anime alla deriva, con i piedi ben immersi nella crisi che sta flagellando l'Italia da troppi anni. Dino (Valerio Mastandrea) è un tatuatore introverso che ha problemi nel pagare gli alimenti alla ex moglie; Bruna (Isabella Ragonese) è invece un’estetista con molti debiti; infine c’è Padre Weiner (Giuseppe Battiston), un prete fissato con il video poker. I tre, che non potrebbero essere più diversi, finiranno con il fare squadra comune quando verranno a conoscenza dell’esistenza di un tesoro nascosto nella seduta di una delle dodici sedie appartenute a Norma Pecche (Katia Ricciarelli), madre di un famoso criminale e a sua volta finita in prigione. Per i tre inizia così una vera e propria caccia al tesoro, che li porterà fin sopra le Alpi, tra incontri surreali e un disperato bisogno di credere che esista una via di fuga ad un’esistenza disperata. A tre anni di distanza da La Passione, Carlo Mazzacurati torna al cinema con la sua commedia potenzialmente più positiva e allegra. Nello sviluppo della trama non mancano scene divertenti e sketch che, presi nella loro individualità, risultano piuttosto riusciti. In questa amalgama di comicità e grottesco quasi surreale, però, a venir meno è una certa consequenzialità. La sceneggiatura, infatti, risulta spesso zoppicante, caotica, gettata alla rinfusa, come se non si conoscesse il disegno finale. Nel viaggio dei tre protagonisti – che sono i veri golden boys dell’operazione – si avverte sempre qualcosa di forzato e artificiale. Sebbene la seconda parte fluisca molto più facilmente della prima – che pecca, forse, di un’eccessiva voglia di spiegare tutto – La sedia della felicità, considerata nel suo insieme, procede a rilento, quasi col timore di inciampare su se stessa, arrivando così ad un finale forse esagerato anche per le illimitate capacità di comprensione ed empatia dello spettatore. Ottima l’interpretazione dei tre protagonisti, che riescono a dare volto e anima ai propri personaggi, senza mai strafare. Ai tre si aggiunge anche una galleria piuttosto nutrita di comprimari, tra cui Silvio Orlando e Fabrizio Bentivoglio. Su tutti però troneggia Katia Ricciarelli che, all’interno di una cella, ritrae una veneziana doc, che usa il suo splendido dialetto e il riconoscibile accento per dar voce alle proprie convinzioni razziste: davvero uno spasso.