Giunta in una Hollywood spietata, Agatha Weiss (Mia Wasikowska) - misteriosamente sfregiata - fa amicizia con un autista di limousine e diventa assistente personale di Havana Segrand (Juliane Moore), attrice ossessionata da un ruolo cinematografico importante che sembra non arrivare mai. Nel frattempo, le esistenze di Benjamin Weiss (Evan Bird), star tredicenne, e degli altri membri della sua famiglia si intrecciano nel turbine di personaggi, invidie e fantasmi che popolano la mecca del cinema.
Sebbene da più parti rinominato come “il Mulholland Drive di David Cronenberg”, Maps To The Stars è un film le cui mancanze possono essere intese solo se inquadrate in una panoramica interna alla filmografia dello stesso Cronenberg. Sintesi di compulsioni psichiche e di ossessioni contemporanee, quello che all’apparenza si presenta come una digressione sulla moderna Hollywood – ma che il regista ha nettamente rifiutato in questa accezione – è piuttosto l’ultimo atto di un percorso autoriale lungo trent’anni che ha nei temi della colpa, della follia e dell’espiazione, soprattutto corporale, i suoi cardini. Rispetto alle fatiche precedenti, Maps To The Stars vanta una svolta grottesca che lo allontana di molto dall’introspettività con cui sempre il regista conduceva la sua poetica, preferendo piuttosto riversare i tanti contenuti psichici in un piccolo cosmo claustrofobico – la Hollywood vacua degli attori nevrotici, delle star tredicenni, del vizio – in cui pretestuose soluzioni metaforiche si esibiscono prive della crudeltà visiva e narrativa del passato.
Nel corso di un’intera carriera, David Cronenberg ha raccontato le ferite dell’anima concentrando la tensione sul rapporto fra la sfera del carnale e quella della psiche, passando per una poetica di rappresentazione della manipolazione (anche violenta) che da La zona morta e Spider si è andata sempre più concettualizzando verso A Dangerous Method e Cosmopolis. In Maps To The Stars tale tematica si limita ad essere riassunta dal personaggio di Agatha, centro di attrazione delle diverse tipologie di psicosi rappresentate nel film: per l’ennesima volta innocente e tormentato, il volto ferito di Mia Wasikowska – attrice che dialoga con gli altri personaggi del film con poca sicurezza e con espressività incatenata, efficace nel confronto con Juliane Moore (giustamente premiata come Migliore Interpretazione Femminile a Cannes 67) tanto quanto banale nei dialoghi con l’autista interpretato da Robert Pattinson – non soddisfa neanche in minima parte i sentimenti oppressivi che lo spettatore di Cronenberg si aspetta di vedere rappresentati sullo schermo. La regia spenta, riconoscibile solo da poche inquadrature virtuose, è letteralmente sommersa dal sostrato verboso della sceneggiatura di Bruce Wagner, la cui coralità d’impianto si alterna fra impalpabili personaggi, fantasmi sfuggenti e cliché cinematografici. La paura, la cattiveria, la furia emotiva che tutto il precedente cinema del regista canadese aveva saputo urlare in quella catarsi scenica che è divenuta cifra stilistica, Maps To The Stars si limita a sdoganarlo come in un manuale di psichiatria, generando fra pubblico e storia un distacco inedito e spiacevole.