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The Look of Silence

01/09/2014 11:00

Valentina Pettinato

Recensione Film,

The Look of Silence

Venezia 71 si è fatta apprezzare anche per la folta presenza di film che trattano tematiche storiche molto delicate...

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Venezia 71 si è fatta apprezzare anche per la folta presenza di film che trattano tematiche storiche molto delicate. Protagonista della prima giornata di Festival, Joshua Oppenheimer torna dopo The Act of Killing a parlare della discutibile arte di uccidere con The Look of Silence, un documentario forte e toccante sul genocidio indonesiano degli anni '60.


Adi, il protagonista, è fratello di una delle vittime del genocidio. Il suo tentativo è quello di parlare con le persone sopravvissute nel suo villaggio per capirne il punto di vista, tentare di ricostruire la storia e, soprattutto, vedere negli occhi degli intervistati una qualche richiesta disperata di perdono, in realtà utopica. Insieme ad Adi, nel documentario, la sua bizzarra famiglia: un padre ultracentenario sordo, muto e paralizzato che crede di avere 16 anni; la madre, ottantenne, che si occupa con amorevole devozione del marito tanto quanto prega ogni sera per la morte dei carnefici di suo figlio.


Se in The Act of Killing non c’è posto per espiazione o pentimento in The Look of Silence Oppenheimer mostra un volto più rassegnato sugli orrori della violenza, in cui persino qualche forma di perdono può essere concessa, purché liberatoria. Adi rappresenta tutte le vittime del passato: il suo porta a porta con i rappresentanti del mondo degli assassini è un viaggio alla ricerca di qualche forma di pentimento. Ai buoni sentimenti del protagonista, tuttavia, si oppone "la visione degli assassini", intrisa di forte ideologia e ostinata nel giustificare le brutture del passato. All'interno di questa sequenza di volti in primo piano, il regista cerca penetrare nei solchi più profondi delle persone intervistate, spesso incapaci di mostrare alcun barlume di tentennamento o umanità: mentre il massacro di quegli anni sembra orfano di un mandante, tutte le persone intervistate sembrano convinte e fiere delle proprie azioni. Oppenheimer sceglie di portare al Lido la cruda e devastante realtà, non filtrata e raccontata in maniera tanto naturale da sembrare quasi fiction. Bellissima la metafora usata nel film per rappresentare l’andamento narrativo: Adi, che di professione fa l’optometrista, misura la vista attraverso occhiali graduati a tutti gli abitanti del villaggio, prima di scambiare con loro qualche chiacchiera sul genocidio. Quel provare la vista al proprio interlocutore diventa un grado di penetrazione dell’ideologia, all'interno dell'animo di uomini ormai anziani eppure neppur minimamente scalfiti da sussulti di ripensamento. Quanto i calcoli di Adi misurino la distorsione della realtà, sembra definirlo in gran parte la pellicola di Oppenheimer, eppure nonostante ciò la convivenza in quei villaggi tra famiglie di vittime e assassini sembra possibile.


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