Il sogno di Jon (Donmhall Gleeson) di diventare musicista incontra la realtà quando un giorno, per caso, assiste al tentato suicidio del tastierista dei Soronprfbs. Trovatosi a sostituirlo per un concerto e poi per la registrazione del nuovo album, Jon si unisce alla band, i cui membri sembrano usciti da un manuale di psichiatria: Clara (Maggie Gyllenhaal) soffre di sindromi maniaco-depressive, Don ha tendenze feticiste e Frank (Michael Fassbender), il front-man, indossa una testa gigante di cartapesta che non toglie mai. Se è vero che la musica, la creatività e persino la sensibilità e il disagio emotivo, sono esperienze ormai da concedere alla mercè del circuito dei social network, allora il film di Lenny Abrahamson è più di un racconto tragicomico che si fa beffe del nuovo modo di essere artista: è una riflessione drammatica, nonostante la forma esilarante, sulle conseguenze che l’assalto dei media e l’ossessione per l’approvazione del pubblico possono avere sulle menti più fragili. Frank e la sua band di psicolabili sono i prodotti della "civiltà del Like": la performance artistica – e qualche volta anche umana – che passa per la gratificazione non solo sul bersagliatissimo Facebook ma anche attraverso YouTube, nel sottilissimo confine tra talento, popolarità e tormentone. Lo sceneggiatore Jon Ronson presta la sua esperienza autobiografica al fianco di Frank Sidebottom - misterioso musicista alter ego del comico inglese Christopher Sievey - per un film originale, un’osservazione acuta del sistema dei social ma anche una satira all’indie rock e al principio dell’instabilità mentale come cliché. Jon, attraverso i suoi occhi semplici – privi di qualsiasi talento ma colmi di candide illusioni - sarà il solo a spogliare Frank delle sue molte maschere liberandone l’inadeguatezza e uno spirito più ribelle di quello codificato e accettato dal pubblico. Lenny Abrahamson ha un talento speciale per il racconto di esperienze ai margini. Già nel 2004 con Adam & Paul aveva inquadrato perfettamente il disagio dei due protagonisti, lì tossicodipendenti, in una Dublino impenetrabile e insensibile. Frank è un film borderline. Se da un lato sa far ridere di un umorismo british mai scontato - che si compone di idee qualche volta genialoidi e di dialoghi brillanti (in gran parte prove della indisponente Gyllenhaal) - inaspettatamente lascia che lo spettatore ripiombi in un baratro di inquietudine e insicurezza, insieme ai protagonisti. La semplice struttura on the road concede alla pellicola la libertà necessaria per svolgersi attraverso le dinamiche relazionali fra i personaggi, nel conflitto fra Jon e Clara e nell'appassionante costruzione del rapporto fra il tastierista e Frank. Un capitolo a parte merita l’interpretazione di Michael Fassbender, almeno quanto la scelta di Abrahamson di non mostrarne il viso. Dopo aver prestato volto e fisicità a interpretazioni dure e potenti come quelle di Hunger e Shame ma anche all’azione più pop in 300 e X-Men, Frank costituisce una prima grande svolta nella carriera dell’attore: un ruolo intimista, travestito di una comicità dinoccolata che chiede a Fassbender il corpo, non per martoriarlo o esibirlo, ma come unica forza espressiva di ferite che sono stavolta tutte interiori.