Una terrazza tra L'Avana e il mare: cinque amici cubani, cinquantenni, si trovano dopo anni nella città della loro giovinezza a ricordare un'intera vita passata vicini e lontani. C'è Amadeo (Néstor Jiménez), tornato a Cuba dopo quindici anni di assenza che Tania (Isabel Santos) ancora non gli perdona, il nostalgico Aldo (Pedro Julio Díaz Ferran), l'egocentrico Eddy (Jorge Perugorría) e il “filosofo” Rafa (Fernando Hechevarria). La storia d'amore fra il regista francese Laurent Cantet e Cuba è qualcosa che somiglia più a un invaghimento che a una passione matura e consapevole. Dopo aver girato nel 2012 La Fuente, uno degli episodi del film collettivo 7 Days in Havana (2012), Cantet si è lasciato conquistare dalle atmosfere cubane fino a decidere di tornare anche lui all'isola amata, due anni dopo il primo viaggio. Nel mezzo, la parentesi americana di Foxfire (2012), ultimo residuo di quella poetica esplorativa delle abiezioni culturali dell'Occidente che gli era valsa nel 2008 la Palma d'Oro con La Classe. Diceva Ernest Hemingway che il vento di terra non sfugge a Cuba e così anche Cantet, dopo l'incontro con l'isola, è approdato a un nuovo stile più contemplativo e nostalgico che tuttavia non coglie fino in fondo la problematica cubana e l'eterno dissidio dei suoi abitanti. Scritto insieme al romanziere cubano Leonardo Padura e strutturato come una pièce teatrale, Ritorno a L'Avana è un film crepuscolare che chiama in causa - più delle altre - la generazione post-rivoluzioni, quella a cui appartengono i cinque protagonisti e anche i suoi autori. L'idea di partenza era quella di raccontare l'isola attraverso le voci dei cubani che hanno visto la Revolucion e le sue speranze, la dissidenza, l'apertura del paese a ciò che c'è dopo il mare e infine la crisi d'identità di un intero popolo sospeso tra due epoche, due stili di vita, due mondi in conflitto che non esistono più. Una conversazione serrata che ha il ritmo confidenziale dell'amicizia di vecchia data, che sin dalle prime battute invita lo spettatore ad accomodarsi sulla terrazza habanera e ascoltare, entrando in confidenza con ognuno dei tipi umani che il film rappresenta. In effetti Cantet, completamente assorto nel suo innamoramento, non si sforza di caratterizzare ogni personaggio nella sua interezza ma solo di delinearne un conflitto, qualcosa che, come nel caso di Amadeo, lo abbia tenuto lontano da casa o come nel caso di Rafa abbia il sapore della disillusione. Poco importa al regista approfondire un tema soltanto o entrare nel nocciolo della questione cubana: se infatti solo brevemente si nota la firma di Padura, per lo più la scrittura del film è un canovaccio teatrale sul quale poi i cinque – ottimi - interpreti hanno libertà di esprimere il loro personale modo di essere cubani. Si nota, e molto, la non appartenenza del regista ai luoghi narrati, ma il tono del racconto è così ipnotico, così splendidamente malinconico che il viaggio nei ricordi del protagonisti assume presto il sapore di un nostos, un ritorno a casa meglio evocato dal titolo originale, Retour à Ithaque. Tornati dopo un lungo peregrinare - non solo fisico, come nel caso di chi è stato a lungo lontano da Cuba, ma anche metaforico per chi, come Tania, per anni ne ha dimenticato l'ostica bellezza - ognuno dei cinque protagonisti ritrova la sua isola carica di tesori. C'è il whisky, il rum, le canzoni, la politica da comprendere e tutte quelle cose lasciate alle spalle o mai risolte. Su un'alta terrazza, solo sfiorati e mai più toccati dai venti del mare - come spesso succede a chi le sue battaglie ha già terminato di combatterle - i cinque esuli rievocano fantasmi e speranze, non solo personali ma anche di un intero paese.