Juliet Palmer (Elisabeth Röhm) è una giornalista americana che ha sempre vissuto a Manhattan, anche se la sua ambizione sfrenata la spinge a cercare la verità dentro alle mancanze altrui. Quando il caporedattore del giornale Profiles la invita a condurre un'inchiesta sugli stili di vita ai confini della società e la manda a trascorrere una settimana nella comunità di Ananda, Juliet è scettica e prevenuta. Scoprirà molto presto che le cose sono spesso differenti da come appaiono e che esistono modi diversi e sorprendenti di concepire l'esistenza. L'intento di Finding Happiness - Vivere la felicità è quello di far conoscere la filosofia di vita delle comunità Ananda nel mondo. Nato in India negli anni Venti, questo sistema di pensiero propone un concetto di religiosità che coinvolge ogni singolo aspetto dell'esistenza. Creata da Paramhansa Yogananda, la dottrina si espande in fretta grazie al libro Autobiografia di uno yogi. Letta negli anni Sessanta da J. Donald Walters (poi divenuto Swami Kriyananda), quest'autobiografia diventa ben presto una ragione di vita per lui, che fonda in California il primo Ananda World Brotherhood Village e comincia a farsi portavoce - nonché sostenitore - della dottrina nel mondo. Questa premessa storica è assolutamente necessaria per comprendere il film di Ted Nicolaou, un pellicola dal valore documentaristico profondo e dalla volontà di proporre agli spettatori una valida e sostenibile alternativa alla decadenza morale della società moderna. La finzione cinematografica, ovvero la vicenda della giornalista Juliet sembra essere determinata dalla necessità di precedere le possibili reticenze del pubblico di fronte a un tema sicuramente difficile da affrontare. Se attraverso le domande della reporter si cercano, infatti, di estinguere i dubbi della protagonista insieme a quelli del pubblico, le risposte del film sono invece sincere. In questa formula ibrida tra documentario e fiction - a essere del tutto onesti, non così originale in questo periodo - l'elemento di maggior interesse risulta essere il tentativo di creare un'esperienza emotivamente coinvolgente, da eliminare qualsivoglia forma di schema mentale o di preconcetto. Semplicemente si entra in contatto con una realtà diversa che si può scegliere di accettare o meno. L'organizzazione del film, tuttavia, fallisce proprio nel suo primo intento: lo spettatore rischia infatti di sentirsi inculcare un giudizio che non nasce da un dibattito o da un confronto aperto e obbiettivo. Il tutto risulta allora estremamente lineare, ma poco sviluppato dal punto di vista drammaturgico. Dal momento che sembra che la pellicola nasca proprio dalla necessità di promuovere la coinvolgente cultura Ananda nel mondo, resta allora da chiedersi perché non si sia optato per un documentario puro, un formato che può magari apparire banale e superato, ma di certo più efficace e onesto.