Amélie (Pauline Etienne) è una ragazza con un unico, grande amore: il Giappone. Di origine belga, la giovane riesce a realizzare il suo sogno quando si trasferisce a Tokyo, dove si mantiene dando lezioni di francese. Proprio grazie a questo lavoro part-time conosce Rinri (Taichi Inoue), un ragazzo di famiglia benestante con il quale le lezioni di lingua si trasformano ben presto in un’amicizia che strizza l’occhio all’amore. Presentato in anteprima nella sezione Alice della Città, all’interno della cornice del nono Festival del Cinema di Roma, Tokyo Fiancée è la trasposizione cinematografica del romanzo autobiografico Né di Eva né di Adamo della scrittrice Amélie Nothom. Il nome della protagonista sembra essere un’eredità scomoda da portare in ambito cinematografico, dal momento che lo spettatore crea immediatamente un collegamento con l’indimenticabile Amélie di Jean-Pierre Jeunet. A ben guardare, questa Amélie belga tratteggiata dalla regia di Stefan Liberski, ha qualche elemento in comune con la sua omonima parigina: c’è, in lei, una sorta di distacco dalla realtà, un tentare di perdersi in un mondo evanescente e fortemente onirico. Amélie occupa una dimensione spazio-temporale che appartiene a lei e ai suoi sogni e che risponde a regole del tutto opposte a quelle del mondo condiviso dagli esseri umani. Un universo stra-ordinario che si crepa solo quel poco che serve a far sì che possa entrarvi Rinri - giapponese innamorato della cultura francese - che scivola nelle spire di una lingua sconosciuta allo stesso modo in cui si insinua nella vita della protagonista. La prima parte del film di Liberski, incentrata soprattutto sul collidere di questi due mondi diametralmente opposti, è quella che funziona maggiormente. Amélie fa amicizia, si innamora, sogna scenari al limite del grottesco e - cosa assai più importante - diverte lo spettatore. La storia d’amore che nasce come un bocciolo delicato è sognante e delirante, con piccoli sketch partoriti direttamente dall'immaginazione esagerata della protagonista. La scelta stilistica di costruire una diegesi quasi fumettistica intorno alla crescita emotiva di Amélie risulta efficace durante i primi quaranta minuti di visione ma dopo, comincia a stridere con una serietà di fondo e un filosofeggiare che finiscono per contagiare l’anima stessa della pellicola, rendendola qualcosa di indefinito. Da questo punto in poi, infatti, Tokyo Fiancée rinuncia alla spensieratezza, al pop e al surreale, scegliendo di concentrarsi piuttosto su un malessere spirituale che non ha ragione di esistere. Da qui, la pellicola mostra tutte le proprie crepe, perdendo l’interesse dello spettatore in una sorta di pesantezza diffusa che si spezza solo quando la parola fine appare a dare sollievo a una fruizione quasi forzata.