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I ponti di Sarajevo

22/11/2014 12:00

Aurora Tamigio

Recensione Film,

I ponti di Sarajevo

La miccia della polveriera, il focolaio d'Europa...

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La miccia della polveriera, il focolaio d'Europa. Dalle scintille che hanno acceso la Grande Guerra alle fiamme dei sanguinosi conflitti degli anni '90, a Sarajevo si sono incrociate le armi per un secolo di storia. Avamposto d'Occidente, circondata dalla potenza ottomana e dall'impero russo, da sempre crocevia di popoli che, attraversandola, vi hanno lasciato una firma. Sono poche in Europa (una di queste è la camaleontica Berlino) le città in cui si può leggere il passaggio del tempo e le cicatrici del Novecento come nella capitale bosniaca. Anche oggi che è uno dei luoghi più culturalmente vivaci del Vecchio Continente.


Il critico Jean-Michel Frodon riunisce tredici registi europei a realizzare I ponti di Sarajevo, lungometraggio collettivo che riflette sul valore storico ma anche sull'identità di una città che ha dolorosamente conquistato ognuno dei suoi racconti. Una raccolta di cortometraggi in cui si confrontano autori diversissimi fra loro - della vecchia o della nuova generazione, mostri sacri come Jean-Luc Godard o promesse come Kamen Kalev (nella Quinzaine des Rèalizateus nel 2011 con The Island) - su uno o più aspetti che riguardano il passato, le eredità e le speranze di Sarajevo. Gli esiti delle opere realizzate sono diametralmente distanti. Se da una parte qualcuno, come l'italiano Leonardo Di Costanzo, ha rispolverato (senza troppa originalità ma con molta cognizione del cinema nostrano di trincea, ereditato da Francesco Rosi) la storia universale del soldato semplice che rifiuta la guerra, il bulgaro Kalev va ancora più indietro con i fatti, offrendo una sua - personale, fatalistica - interpretazione dell'attentato all'Arciduca Francesco Ferdinando. Resta impressa l'ironica ma spiazzante crudezza dell'episodio del rumeno Cristi Puiu - una riflessione sulla drammatica xenofobia jugoslava - come anche l'invenzione, romantica e delicata, di Ursula Meier, una metafora che chiude il film in poche positive, sequenze. Accanto a esperimenti più azzardati come quello di Album di Aïda Begić - unica regista bosniaca a partecipare al progetto - c'è il grande omaggio di Godard: il suo Le Pont des Soupirs è una prova di cinema classico che guarda a sè stesso ma dispone la propria arte al servizio del racconto dell'anima stessa di Sarajevo, recuperando la mai dimenticata fascinazione per la malinconica capitale balcanica. A fare da cornice ai corti, ancora intorno al tema del ponte, sono le sequenze animate del fumettista belga François Schuiten. Presentato fuori concorso a Cannes 67 e in tour presso i principali Festival europei (fra cui anche quello di Sarajevo), il film ideato da Jean-Michel Frodon prende vita nel contesto delle celebrazioni per i cento anni dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale, ma è solo un omaggio. I ponti di Sarajevo è un'opera che ricostruisce e desidera ricucire le ferite; che restituisce centralità, compassione ma anche desiderio di sorridere e grande dignità visiva, letteraria e cinematografica alla capitale cui è dedicata.


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