Unico film italiano in concorso alla 67esima edizione del Festival del film di Locarno, Perfidia è il ritorno al cinema del giovane regista sardo Bonifacio Angius, già apprezzato da critica e pubblico per il mediometraggio del 2011 saGrà scia. In un’anonima cittadina della provincia di Sassari conduce faticosamente la propria esistenza il trentacinquenne Angelo (Stefano Deffenu), rimasto da pochi giorni orfano di madre. Il ragazzo divide il suo tempo tra le strade nebbiose - nelle quali vaga privo di meta - e lo squallido bar di periferia dove incontra gli amici. Cristallizzato in un’invincibile apatia che lo rende incapace di provare interesse per alcunché, Angelo non sa appassionarsi a nessuna attività , malgrado i significativi sforzi compiuti dal padre Peppino (Mario Olivieri) per procurargli un impiego. Angelo pare irrimediabilmente avvolto in una pesante corazza che gli impedisce di aprire gli occhi sul mondo: neppure l’evento traumatico che bruscamente irromperà nella vicenda riuscirà infatti a spezzare quel guscio d’indifferenza che lo avvolge e - forse - lo protegge. Sullo sfondo di una Sardegna grigia e cupa, Bonifacio Angius conduce il pubblico attraverso il sofferto stillicidio dei giorni che si susseguono nella vita di Angelo: il procedere lento, quasi affaticato del film risulta funzionale all’adozione da parte degli spettatori dell’apatico sguardo del protagonista. Perfidia è claustrofobicamente privo di speranza, tanto da sembrare quasi uno di quei disperati interni domestici abbozzati da Raymond Carver nei suoi racconti. Soltanto la colonna sonora di Carlo Doneddu, con le dolci e malinconiche note del pianoforte, esprime compassione nei confronti di una vicenda priva di speranza, narrata senza alcuna pietà . Del resto, secondo il giovane regista, il mondo nel quale vivono Angelo e Peppino e nel quale, in seconda istanza, vive ciascuno di noi è un mondo cattivo. Sono numerosi i temi affrontati – più o meno esplicitamente – da Perfidia: il senso del lavoro quando questo finisce per essere fine a sè stesso, il disagio dei giovani incapaci di trovare un proprio ruolo nella società , la vita nella tetra provincia, la difficoltà del rapporto tra padri e figli. Anche la religione ha la sua parte: una spiritualità esibita attraverso inquadrature ravvicinate del rosario di plastica appeso allo specchietto retrovisore dell’auto di Peppino con, in sottofondo, la voce maschile che dalla radio recita senza sosta preghiere e litanie. Ancora, è una religione infantile e manichea quella veicolata dalla suggestiva voce fuori campo di Angelo. Sebbene si tratti in larga parte di tematiche non certo estranee al cinema italiano di questi anni - per lo più incapace di emanciparsi dalla propria storia e dalle proprie tradizioni - lo sguardo di Angius nei confronti di esse risulta giovane e fresco. Il regista, infatti, non si inserisce nel novero di autori che hanno dato voce a una generazione di trentenni insoddisfatti sullo sfondo di un’Italia incapace di risollevarsi dalla crisi economica, ma preferisce raccontare lo scontro/incontro di due diverse generazioni. Al centro del film, però, non ci sono né la generazione di Angelo né quella di Peppino: ci sono i drammi personali di due individui, narrati in chiave intimistica, per un cinema effettivamente vicino alle persone.