Ferro 3 catapulta nelle atmosfere fiabesche dell'intimismo orientale di Kim Ki-duk, Premio Speciale per la Regia alla 61ª Mostra del Cinema di Venezia. Proprio come uno strano Babbo Natale, il protagonista si infiltra nelle abitazioni altrui senza essere un ladro. Non porta doni però, o meglio non in senso canonico: quando i padroni di casa sono in viaggio ruba solo un po’ di ospitalità e poi va via, ma non prima di lasciare tutto in ordine, di riparare gli oggetti rotti, fare il bucato e scattarsi una foto. Tae-suk (Hee Ja) gira con la sua moto per i quartieri e individua abitazioni vuote da abitare furtivamente per qualche tempo, fino al ritorno dei legittimi proprietari. Durante uno dei soliti "soggiorni" in una di queste case, si accorge di non essere solo: una donna bellissima, Sun-hwa (Seung-yeon Lee), con il volto ferito per via dei maltrattamenti del marito, lo osserva in silenzio. All’improvviso il compagno violento rientra nell’abitazione e, colto dalla rabbia, ricomincia a maltrattare la donna, costringendo Tae-suk a soccorrerla. I due fuggono insieme, iniziando un vagabondaggio che li porterà di casa vuota in casa vuota, condividendo la magia di quelle infrazioni e innamorandosi poco a poco. Alla fine di questo viaggio Tae-suk finirà in prigione e Sun tornerà a casa dal marito. Ma sarà questo il vero epilogo? Dopo Bad Guy, Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera e Samaria, il regista sudcoreano continua con Ferro 3 - La Casa Vuota la sua recherche sul rapporto tra materialità e spiritualità , su ciò che è reale e l'immaginazione. Ferro 3 è il nome di una mazza da golf, quella meno utilizzata dal giocatore, che giace quasi sempre dimenticata all’interno della sacca. Simbolo di solitudine e abbandono, nel film è al tempo stesso l'arma con cui Tae-suk libera con violenza la donna amata dalle vessazioni del marito, proteggendola da ogni male. Il simbolismo si ripete come una liturgia: il forte e cadenzato rumore della pallina da golf detta lo scorrere del tempo filmico, quasi interamente privo di dialoghi pur non essendo un film muto. La stretta relazione fra amore e violenza, che caratterizzava i lavori precedenti del regista, subisce in questa pellicola un movimento centripeto: dall’esterno del mondo all’interno dell’anima. I protagonisti assorbono il dolore e non riescono, non vogliono, non possono raccontarla. Gli amanti clandestini reagiscono donando alle dimore abbandonate e incustodite una rinascita: abitando le foto appese alle pareti, gli oggetti rotti e le cose dimenticate, ottengono cura, presenza, amore. A legare i due protagonisti è questa dimensione di condivisione: entrambi portatori sani di solitudini invisibili, attraverso il riconoscersi l’uno nell’altro riescono a dare corporeità a uno stato di insostenibile leggerezza. A coloro che sono convinti che la parola sia lo strumento di comunicazione più efficace, il film oppone il silenzio: non come semplice assenza di dialogo, ma come presenza di significato. Le case, simulacro di una dimensione domestica e borghese, sono così "scassinate" da questi romantici antieroi che oppongono al frastuono degli elettrodomestici e delle sovrastrutture la semplicità del silenzio, del loro amarsi. Il regista depura la pellicola di ogni elemento in eccesso, in quest’elogio delicato dell’invisibilità . Permane una violenza trasversale, che attraversa il film senza però sporcarlo di toni cupi: non potendo rinunciarvi totalmente (e chi ama il regista sa quanto gli possa costare) essa è qui utilizzata come mezzo di denuncia di una realtà finta e artefatta. Da un lato sovrastrutture domestiche, apparentemente in ordine, sotterraneamente spaventose; dall’altro ciò che è invisibile agli occhi, come l’amore, la passione, la tenerezza o semplicemente la compassione. Procedendo per tesi, antitesi e sintesi a un piano reale che sembra parlare di una storia d’amore, segue un secondo livello dell’arte della rappresentazione e della finzione scenica; fino a raggiungere la sintesi nel terzo livello, in cui reale e irreale si fondono e rendono complesso individuare la natura delle cose. La caratterizzazione dei protagonisti è eterea: non sono che ologrammi, corpi senza peso, apolidi di un luogo terreno ma concittadini di un leggero sogno comune. Il film procede nella seconda parte in un’interessante operazione filosofica: un addestramento al vero modo di guardare alle cose, all’amore. Tae-suk durante la sua prigionia impara a porre il proprio sguardo a monte di ogni punto di vista. La macchina da presa, da qui in poi, diventa sguardo del protagonista. È attraverso i suoi occhi che si può compiere un viaggio a ritroso in tutte le case che egli aveva abitato e in cui aveva lasciato traccia, cogliendo la presenza del suo passaggio. La dialettica tra apparente e reale trova il suo culmine nella scena finale: il ritorno nella casa dell’amata. Sublimato a punto di vista, Tae-suk è invisibile a tutti, tranne a colei che sa dove cercarlo. In chiusura, la meravigliosa scena che rappresenta l’azzeramento dei classici paradigmi di interpretazione del reale: è zero il peso dell’amore sulla bilancia o siamo noi che l’abbiamo manomessa? Lo stesso dubbio attraversa come un fiume tutto il film e non sapremo mai se tutto ciò è magia o realtà .