Nel 1936 la possibilità di girare film sonori esiste da un pezzo, almeno da undici anni, eppure Charlie Chaplin diffida tenacemente delle novità tecniche e insiste per realizzare la sua ultima pellicola muta. Il titolo di quest'opera straordinaria si riferisce a quella modernità feroce alla quale, a dirla tutta, nemmeno Charlot riesce ad abituarsi. Il personaggio con bombetta e baffetti – nato per rappresentare gli "ultimi" attraverso il cinematografo – sembra quasi immobilizzato dentro un mondo che il lavoro (ma anche l’assenza di esso) ha reso frenetico, con individui costretti a lottare strenuamente per trovare il loro posto in una società sempre più equiparabile a un gregge di pecore. La follia coglie Charlot mentre si adegua agli estenuanti ritmi della catena di montaggio. La sua impossibilità di reinserirsi in una comunità, sempre più ostile dopo il suo tracollo nervoso, lo conducono a considerare il carcere come unico luogo sicuro in cui stare. Almeno finché l’amore di una giovane orfana (Paulette Goddard) non lo riporta ad avere fiducia nella bellezza delle cose. Se avesse fatto ingresso, anche nel tessuto sociale contemporaneo, un briciolo della meravigliosa e potente speranza con la quale il Vagabondo si congeda al pubblico – a passi ampi verso un orizzonte carico di avversità e sventure, certo, ma anche di sogni e promesse – , allora ci saremmo risparmiati la desolazione emotiva e morale dell’epoca moderna. Chaplin insegna che per sorridere basta la tenue luce dell’alba, la persona amata al proprio fianco e uno dei più bei brani della storia delle colonne sonore, ovvero Smile. Proprio tra queste note, composte dallo stesso attore e regista, è possibile ritrovare il senso dell’intera poetica di Chaplin: nulla è perso, finchè si ha ancora la forza di sorridere. Ecco perchè le parole non servono e divengono mattoncini vuoti di significato con cui Charlot può giocare a suo piacimento. Infatti, quando viene costretto a cantare a fine film, dalle sue labbra può solo uscire una canzone sconclusionata come Je cherche aprés Titine. Prima del linguaggio ci sono sempre l’osservazione e l’universalità dell’estetica. Da questo principio nascono alcune delle immagini più memorabili di Tempi Moderni, come quella dell’uomo schiavizzato dalla macchina, tanto da esserne fagocitato all’interno; oppure la gag della meccanizzazione forzata del pranzo. L’implicazione sociologica è l’elemento chiave per comprendere la filmografia chapliniana della prima fase della sua carriera, caratterizzata da uno straordinario acume e da un’originalità ineguagliabile. D’altronde non ci si può aspettare nulla di diverso da chi, nato in Inghilterra nella miseria tipica della classe operaia dell’epoca vittoriana, riesce a creare per sé e la propria famiglia un’occasione di riscatto nel nuovo continente. Lo sguardo critico si impasta quindi alla memoria d’infanzia per rinascere come narrazione, senza sterile retorica sentimentalista. Se non proprio l’ottimismo verso un progresso più umano, almeno la speranza in esso guidano la macchina da presa di Chaplin. Le delusioni saranno molte e amare (la più dura da digerire sarà l’accusa di comunismo ai tempi del maccartismo e il conseguente esilio forzato dagli States) e si ripercuoteranno sul tono triste e malinconico degli ultimi film (tra cui spiccano sicuramente Monsieur Verdoux e Luci della ribalta). Per nutrire mente e anima durante le feste va senz'altro rivisto Tempi Moderni, approfittando della sua nuova distribuzione nelle sale, restaurato, per tutto dicembre. Alla faccia del cinepanettone.