Mathias (Kevin Kline) è un newyorkese allo sbando che approda a Parigi con un unico scopo: rivendere l'appartamento che il padre gli ha lasciato. Secondo un uso tipicamente francese, strano agli occhi dell'americano, non potrà disporre liberamente della sua proprietà fino a che l'anziana inquilina Mathilde Girard (Maggie Smith) rimarrà in vita. Dal momento che la legge è dalla parte di madame Girard e della figlia Chloé (Kristin Scott Thomas), senza soldi né legami e prospettive, a Mathias non resta che la convivenza forzata con le due donne. Adattamento di un testo destinato al teatro, My old lady segna l'esordio al cinema di Israel Horowitz. Il regista, attore e scrittore settantacinquenne ha saputo immaginare e dare vita a un'opera che ha molto da raccontare e della quale è difficile smettere di parlare. Una commedia elegante e delicata, nella quale l'ironia, le battute sagaci e una recitazione essenziale fanno da contrappeso a tre esistenze disastrate. Non le accomuna solo un banale indirizzo o una coincidenza, ma una identica maniera rassegnata e triste di scrutare la vita. A ben vedere, My old lady è un film riflessivo e malinconico, in cui neanche la comicità, che viene spesso in soccorso, riesce a smorzare l'amarezza. Tuttavia, proprio la coesistenza di queste emozioni contrastanti illumina gli interpreti di una luce che rende più profonde, umane e affascinanti le loro esperienze. L'inaspettata convivenza toccata ai tre protagonisti genera attriti ma si rivela determinante soprattutto per Mathias: senza denaro né scopi, quella manciata di metri quadri nella capitale francese è tutto ciò che resta al disincantato newyorkese, dopo le ferite di un'intera vita di contrasti irrisolti con il padre. Il black humor che il personaggio di Kline sfoggia, alleggerisce di gran lunga i suoi drammi (molto teatrali) e risparmia allo spettatore la disperazione e il tormento. Intorno all' “augurio” di morte che Mathias riserva alla sua madame coinquilina, Horowitz costruisce un film che racconta con sapienza difficili rapporti trans-generazionali, in primis quello fra l'anziana Mathilde e la figlia nubile Chloé. Il discorso sul tempo che passa e sulle tre età è assoluto e avvolgente: mentre (contro le aspettative) Mathilde brinda lucidamente a una lunga vita - rafforzandosi di una commuovente dignità e di un sorriso più bello di una maschera di rughe – sua figlia si sente ormai anziana, poco attraente e disincantata. La femminilità è narrata nella sua essenza complessa, mostrando donne combattive a mezzogiorno e fragili quando arrivano la sera e i pensieri. L'uomo che si inserisce in questo duetto, in lotta con il tempo, diventa cardine di osservazione e tramite nei confronti dello spettatore, invitato a entrare anch'esso – in punta di piedi – nell'appartamento parigino. Il capoluogo francese, dal canto suo, accoglie con dolcezza quest'avventura: Horowitz non si compiace mai eccessivamente della generosa bellezza della città né cade nell'errore di indulgervi troppo, per colmare dei vuoti. Parigi fà da cornice, non ridondante ma viva, di una storia che è – in definitiva – un inno alla giovinezza.