Dopo essersi fatto notare come sceneggiatore per U-571, Fast and Furious, Training Day (Premio Oscar a Denzel Washington), David Ayer ha esordito alla regia con quell’interessante lavoro che è Harsh Times e con il noir metropolitano La notte non aspetta; poi c’è stato End of watch - suo bellissimo crime-poliziesco con Jake Gyllenhaal - e Sabotage con Arnold Schwarzenegger. David Ayer torna in sala con Fury, due ore e un quarto che trasudano virilità e senso d’appartenenza alla divisa: un film che ha già fatto parlare di sé in America per l’uso rabbioso e spinto della violenza. Ambientato in Germania durante la seconda guerra mondiale, il film racconta le gesta del sergente americano Don "Wardaddy" Collier (Brad Pitt) e della sua opera di educazione bellica a cinque soldati con lui in missione dietro le linee nemiche. La squadra cingolata batte la Germania in lungo e in largo, dilettandosi nella sublime arte di far strage di nazisti. Dopo il loro passaggio non resta nulla, solo morte e distruzione: a bordo del carro armato Fury non c’è posto per sentimenti come la compassione. Cosa può succedere quando all’interno di un carro armato così “maschio” arriva un giovane dattilografo? Norman (Logan Lerman), che di guerra non sa proprio nulla, si trova a dover sostituire un soldato perso dallo squadrone durante uno scontro. Trascinato in missioni terrificanti, imparerà a scendere a patti con le proprie convinzioni, perché “Gli ideali sono pacifici, la storia – purtroppo - è violenta.” Il film, che non fa sconti sui cliché bellici, è un lavoro decisamente interessante sotto molti punti di vista. Non solo per interpreti che non la mandano certo a dire (Shia LaBeauf, Michael Peña, Jon Bernhtal, Logan Lerman) ma per il forte carattere che il regista tira fuori nel mettere in scena una storia che di per sé sarebbe davvero poco articolata. Lo squadrone protagonista è stato svezzato alla guerra già da tempo: combattendo fianco a fianco in Africa e in Normandia hanno formato un improbabile gruppetto familiare, stretto tra fango e morte all’interno dell’abitacolo del Fury, che è angusto ma in cui c’è persino spazio per conversazioni filosofico-religiose sul senso della guerra. La compagnia copre tutto lo spettro di possibili personaggi: c’è il bullo “Coon-Ass”, l’ironico “Gordo” e il profondo “Bible”. A loro si aggiunge Norman, un pesce fuor d’acqua che, a malincuore, abbandonerà la sua gentilezza d’animo per trasformarsi, cadavere dopo cadavere, nel compagno “Machine”. Perché Fury colpisce nel segno? Perché oltre le cicatrici e i cadaveri - mostrati senza alcuna voglia di girare attorno alla verità - è un film tosto, che si fa rispettare. In quella voglia di raccontare un percorso di devianza, affrontato da uomini-carro armato che asfaltano tutto ciò che di vitale esista sulla terra e che si sono ormai abituati a morte e distruzione, ne mostra gli aspetti quasi teneri. Il tentativo goffo di fingersi persone normali, attaccati a barlumi di vita che si manifestano nella recherche di un senso nelle loro azioni o nella disperata messa in scena di routine familiari (splendida la scena del pranzo in casa di due donne tedesche). Fury graffia, in questo essere un racconto di sottrazione di umanità che non risparmia nessun partecipante alla guerra. Sul finale, il film ruzzola verso la spettacolarizzazione dell’arte bellica: effetti speciali e tutto quello che ci aveva risparmiato nella prima parte - optando per un asciutto realismo- viene abbandonato per caricare l’azione finale. Un film di guerra, a suo agio tra gli orrori della guerra, che senza denuncia e eccessiva - stomachevole - esaltazione, riesce a superare egregiamente il rischio fotocopia di Bastardi senza Gloria.