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Timbuktu

06/02/2015 11:00

Francesco Restuccia

Recensione Film,

Timbuktu

Dopo sette anni d’inattività il regista mauritano Abderrahmane Sissako torna a parlare di resistenza, di come si sopravviva alla follia del fondamentalismo...

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Dopo sette anni d’inattività il regista mauritano Abderrahmane Sissako torna a parlare di resistenza, di come si sopravviva alla follia del fondamentalismo. Tra il 2012 e il 2013 Timbuktu, città storica nel centro-nord del Mali alle porte del deserto, crocevia di tante etnie, lingue e culture, punto d’incontro tra l’africa nera e quella magrebina, è occupata da fondamentalisti islamici. Viene imposta la sharia più rigida. Non solo velo e guanti, divieto di fumare, cantare, suonare e giocare a calcio, ma sin dalle prime scene emerge la natura politica - prima che religiosa - di questa occupazione. Come nelle più feroci dittature le regole sono dettate al megafono in strade deserte, è vietato sostare negli spazi pubblici e i tribunali e la polizia islamica controllano le vite di tutti seminando il terrore. Parallelamente, fuori città, le vite del pastore tuareg Kidane, di sua moglie Satima, dell’amata figlia Toya e del giovanissimo e promettente aiutante Issan, scorrono tranquille quasi fuori dal tempo, se non per qualche sporadico incontro. Finché, a causa di un semplice incidente (una mucca che scappa e finisce tra le reti di un pescatore) succede l’irreparabile e le due realtà, la vita pacifica del pastore e quella violenta della città occupata dai jihadisti, finiscono per incontrarsi.


Se la trama del film è semplice, la testimonianza è molto incompleta: non si parla affatto del ruolo dei Tuareg al fianco dei jihadisti, come fa notare la blogger maliana Faty, secondo cui si tratta di un film “per occidentali”. Ma è un film forte. Funziona perché è fatto di facce (quasi tutti gli attori sono non professionisti, scelti tra la gente), di colori e suoni che pulsano a dispetto delle proibizioni. Bellissime immagini, campi lunghi, composizione dell’inquadratura molto curata: un film forse troppo estetizzante, ma che ha la grazia di soffermarsi sempre su ciò che resiste nonostante tutto, senza indugiare troppo sulla sofferenza, che parla sufficientemente da sé. Timbuktu presenta due storie parallele e molto diverse: da un lato quella di una famiglia come tante, dall’altro un racconto corale e attualissimo; da una parte non ci sono buoni e cattivi - ogni personaggio segue il suo destino - dall’altra è chiaro chi è l’oppressore e chi l’oppresso. La vicenda di Kidane è strutturata come una tragedia greca. L’eroe è uno serio, non è un uomo di guerra - che come si sa hanno vita corta - ma si trova in una situazione in cui è costretto a prendere una decisione e compie un errore fatale. Ciò che lega il pastore alle altre figure del film è che, come loro, decide di non cedere.


Amin Bouhafa, autore della musica che, potentissima e ribelle, accompagna tutto il film, ha dichiarato: “Timbuktu parla di spezzare le catene, rompere i divieti”. C’è chi ha detto che Sissako spiega che l’estremismo non potrà vincere – il che sembra paradossale, perché nel film non si mostra la liberazione di Timbuktu avvenuta l’anno successivo, ma il potere incontrastato dei jihadisti - ma quel che il film lascia intendere è che sulle lunghe vince chi ci crede davvero, chi ha più convinzione. Chi resiste non lo fa per spirito di insubordinazione, ma perché crede in valori più forti della paura. I jihadisti sono invece dipinti come coloro che esitano, che cadono in tentazione. Questo è uno degli aspetti che rende il film più forte: nonostante resti sempre chiaro chi sono i “cattivi”, questi non sono mai demonizzati, neache quando compiono gli atti più orrendi. Come aveva fatto Hannah Arendt con il nazismo, quando Sissako denuncia l’orrore del fondamentalismo - con la sua ipocrisia e incoerenza - mostra una possibilità latente in ognuno di noi. Timbuktu è un film tragico anche per questo contrasto apparentemente insanabile tra due leggi (nodo cruciale, che emerge anche nel dialogo tra il saggio imam e il jihadista): una applicata ciecamente, l’altra profondamente sentita. Sissako dirige uno degli attacchi più forti al fondamentalismo islamico: una denuncia che non è compiuta con l’arroganza di un occidentale che giudica un mondo di barbari, ma dal punto di vista degli oppressi che sentono traditi i principî del loro Islam. A Timbuktu, terra d’incontri tra mille culture, ognuno parla almeno tre lingue. Nel film ogni personaggio appartiene a un'etnia diversa e quando non ci si capisce si passa a una terza lingua comune. Bambara, songhai, tamachek (la lingua tuareg), arabo, francese, inglese. Sono solo gli occupanti - che parlano soltanto arabo e dipendono in tutto dagli interpreti - a non essere capaci di alcun dialogo.


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