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Selma - La strada per la libertà

09/02/2015 11:00

Erika Pomella

Recensione Film,

Selma - La strada per la libertà

Il racconto di una delle pagine più importanti della storia americana in fatto di diritti civili

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L’anno è il 1965 e una donna (Oprah Winfrey) tenta, per l’ennesima volta, di ottenere il permesso per poter votare. Ann Lee però è nera e come tutti gli abitanti afroamericani di Selma, una piccola cittadina degli Stati Uniti del Sud, non ha diritto al voto. Marthin Luther King (David Oyelowo), reduce dalla vittoria del Premio Nobel per la pace, si reca a Selma e si scontra con un razzismo che fa ancora della segregazione la sua arma più affilata. Sotto la sua algida guida i cittadini di Selma tenteranno di tirare fuori il proprio coraggio, cercando – per ben tre volte – di attivare una marcia pacifica da Selma a Montgomery, sotto lo sguardo sgomento di un presidente in via di rielezione (Tom Wilkinson) e un governatore che non vuol accettare il progresso (Tim Roth).


Selma - La strada per la libertà di Ava DuVernay racconta una delle pagine più importanti della storia americana in fatto di democrazia: la lotta per convincere il mondo che ogni uomo è stato creato uguale davanti alla legge e che, per questo motivo, tutti hanno diritto al voto. Partendo da questo presupposto, il film si sofferma sulle mille altre ingiustizie che la gente di colore ha dovuto subire nel corso della storia, vivendo nella segregazione come animali nei recinti. Quello di Ava DuVernay è chiaramente un film che funziona molto meglio in patria, in quell’America che ha fatto della democrazia il suo marchio di fabbrica ma che, nelle proprie radici, conserva il ricordo del sangue versato per l'uguaglianza. La regista recupera questa pesante eredità storica e cerca di farne una pellicola onesta, tentando in qualche modo di discostarsi dalla montagna di materiale simile che è stato propinato al cinema per anni e anni. Il risultato, però, non è così soddisfacente come si potrebbe immaginare.


Selma è un film ben confezionato, sorretto da una regia solida, ben consapevole di sé e della storia da raccontare. DuVernay riesce a cogliere alcuni dei momenti chiave della vicenda, ponendo l’accento su ingiustizie e violenze subite, costruendo un universo diegetico che ben si sposa anche con la partitura musicale di commento. Dov’è allora il problema? Proprio per questa sua natura così patinata Selma si mostra da subito come qualcosa di volutamente e forzatamente costruito. Ben presto lo spettatore si trova a vagare in una sorta di dimensione intermedia della fruizione: da una parte il persistente senso di già visto, dall’altra la sensazione di essere tenuto in ostaggio da una regia che, di continuo, sembra esplicitare ciò che deve essere percepito o recepito. Sebbene gli elementi tecnici siano tutti ben oltre la sufficienza e l’empatia nasca nel pubblico senza sforzo, c’è in Selma una sorta di pietismo che viene sollecitato con forza, soprattutto grazie all’utilizzo – a volte eccessivo – di rallenty e primi piani sui volti devastati di uomini e donne che si rialzano dopo l’ennesimo scacco. Un sentimentalismo che finisce per far apparire il film troppo ordinato e troppo pensato, al punto da relegare il pubblico al di qua di un muro invisibile che ne minaccia la completa immersione in una storia tanto affascinante.


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