Andrew Neyman (Miles Teller) sogna di diventare un batterista di successo ed esibirsi al Lincoln Center; per questo si è iscritto al conservatorio di Shaffer, il migliore del paese. Un giorno, mentre è alle prese con un'esercitazione sul double swing, viene notato da Terence Fletcher (J.K. Simmons), stimato insegnante del conservatorio e nome di punta nel mondo del jazz. Pieno di entusiasmo all’idea di poter avere un ruolo attivo nella band guidata da Fletcher, vincitrice di molteplici concorsi, Andrew si spingerà fino al limite più estremo per tentare di mostrare al suo maestro di avere le carte in regola per sfondare. Il giovane regista Damien Chezelle (classe 1985, all’attivo un film come Guy and Madeline on a Park Bench, Premio Speciale della giuria al TFF 2009) arriva ora al cinema con una pellicola potente, colma di chiavi di lettura. Whiplash, dall’omonimo brano jazz firmato da Hank Levy, è una lenta ed elegante riflessione sull’arte e sull’ambizione: un saggio colmo di note e sangue, incentrato soprattutto sui mille sacrifici che un artista deve affrontare per avvicinarsi alla propria idea di perfezione. In questo senso il film di Chazelle ricorda molto Il cigno nero di Darren Aronofsky, per questa lenta discesa nell’ossessione e nella ricerca compulsiva di qualcosa di effimero come l’interpretazione perfetta: la macchina da presa si incolla alle spalle di Andrew, alle sue mani, alla batteria che diventa una protesi meccanica di un cuore che anela solo musica. Whiplash, però, è soprattutto uno scambio e uno scontro: da una parte il giovane Neyman, con le sue speranze e le sue ambizioni; dall’altra il dispotico Fletcher e i suoi metodi dittatoriali e frenetici. La pellicola di Chazelle, allora, prende le sembianze di un romanzo di formazione, con ampie zone d’ombra e angoli oscuri dove si insinua lo spettro del maestro, con il suo orgoglio e la sua stessa ambizione. Pur essendo una pellicola intima e misurata, Whiplash riesce a indossare senza sforzo anche l’abito del thriller psicologico: lo spettatore rimane avvinto in un racconto dal ritmo perfetto, scandito dai piatti della batteria e sorretto da un montaggio che diventa protagonista e voce del racconto. La curiosità e la tensione del pubblico non vengono mai meno e l’empatia - di difficile sviluppo a causa di due personaggi tanto complessi da inquadrare - è solo un punto indistinto in una fruizione che, piuttosto, si fa sensoriale e tangibile. Merito anche delle ottime interpretazioni date dai due protagonisti: se Miles Teller si dimostra senz’altro in grado di reggere sulle proprie spalle l’ambizione del malinconico Andrew, il vero capolavoro risiede nell’esasperata interpretazione di JK Simmons, maestro e padrone, mostro e alleato. Gli aspetti più orribili della totale aderenza alla ricerca della perfezione, l'umiltà di piegare la propria arroganza al talento.