Era il 1975 quando il regista svedese Roy Andersson diresse Giliap, secondo lungometraggio della sua carriera. Tra documentari, spot pubblicitari e cortometraggi, sarebbero trascorsi venticinque anni prima che egli tornasse a dedicarsi al cinema con Songs From the Second Floor, Gran Premio della Giuria a Cannes nel 2000 e primo capitolo della “Living Trilogy”. Il film si sviluppa accostando numerosi quadri più o meno connessi tra loro – spaccati di altrettante esistenze – ambientati nel grigio scenario di una città incessantemente paralizzata dal traffico e da processioni di flagellanti che riempiono le strade. Un uomo che ha dato fuoco alla propria azienda fa visita al figlio, impazzito a furia di scrivere poesie e sostituito nel suo impiego di tassista dal fratello che ora mal tollera i propri clienti. Un illusionista fallisce il trucco e, nel corso di un numero di magia eseguito al cospetto di una sala gremita, sega a metà un membro del pubblico. Un ufficiale si reca con alcuni colleghi alla casa di riposo per fare visita al proprio decrepito comandante in occasione del suo centesimo compleanno. Un commerciante di opere sacre è tormentato dal fantasma di un creditore morto suicida, che gli compare davanti agli occhi insieme allo spettro di un giovane impiccato durante la seconda guerra mondiale. Nel frattempo un tremendo sacrificio ha luogo nella generale accondiscendenza. Con Songs From the Second Floor, Roy Andersson apre il sipario sulla sua “Living Trilogy”, destinata a proseguire con You, the Living del 2007 e a concludersi nel 2014 con A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence, uscito in Italia il 19 febbraio 2015. Le numerose vicende attraverso le quali si costruisce il film si accumulano le une sulle altre, formando un complesso edificio all’interno del quale il regista è libero di muoversi a proprio piacimento, soffermandosi ora su di una storia ora su di un’altra. Quasi si trattasse di altrettanti appartamenti dei quali egli detiene le chiavi. Facendo il proprio ingresso in queste esistenze, Andersson riflette sulla vita e sul suo significato, approdando alla descrizione di un mondo cupo e privo di speranza nel quale non esiste alcuna possibilità di redenzione. Il non-senso permea la realtà in tutte le sue forme, tanto che neppure i rapporti interpersonali sono in grado di riscattarla: a ben guardare, in Songs From the Second Floor non esiste il dialogo autentico poiché il confronto con l’altro si compie nell’indifferenza o nel conflitto. Lo spazio privato dell’abitazione e, con esso, quello ancora più intimo della camera da letto non rappresentano una zona franca nella quale liberarsi del fardello del proprio ruolo sociale, ma, al contrario, diventano il luogo del silenzio, dell’incomprensione e della solitudine. Anche e soprattutto quando si tratta di luoghi condivisi. L’esistenza stessa si configura così come un moto incessante e faticoso al quale ciascuno è costretto, nella crudele impossibilità di individuare una direzione o un senso. È un movimento, la vita, che piega le gambe e fa sudare le fronti, senza per questo condurre da qualche parte. Questa interpretazione è suggellata da alcune scene del film tanto emblematiche da assurgere a simbolo della vita stessa, veri e propri correlativi oggettivi che richiamano immediatamente alla memoria «il rivo strozzato che gorgoglia» o «il cavallo stramazzato» cantati dal poeta Eugenio Montale in Spesso il mal di vivere ho incontrato: c’è un’intera città paralizzata senza ragione da un traffico continuo; c’è una lunga processione di flagellanti che si puniscono per qualcosa che allo spettatore non è dato conoscere; c’è - soprattutto - una donna che cerca con tutte le sue energie di salire sullo sgabello di un bar senza però riuscirvi, quasi fosse trattenuta a terra da una forza misteriosa, mentre alcuni uomini in un aeroporto spingono dei pesanti carrelli carichi di valigie senza poterli spostare che di pochi centimetri. Neppure la morte libera da questa insensata sofferenza come testimonia lo spettro del ragazzo della seconda guerra mondiale destinato a evocare per l’eternità un dialogo che non potrà mai più avere luogo, chiamando i passanti in una lingua diversa dalla loro e per questo condannato a restare perennemente incompreso. Questa immobilità della vita, che atterrisce e toglie ogni speranza, è descritta visivamente da Andersson attraverso il frequente ricorso all’inquadratura fissa, come se l’inerzia dell’anima trovasse un proprio diretto corrispettivo visivo nella staticità della macchina da presa. Songs From the Second Floor è un film che si avvale di uno stile estremamente personale, perfettamente funzionale a un contenuto che è diretta manifestazione di uno sguardo intimo che, senza dubbio, ha le idee chiare su se stesso, sulla vita, sul cinema.