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Patria

26/02/2015 11:00

Aurora Tamigio

Recensione Film,

Patria

Salvo (Francesco Pannofino) è un operaio: quando l'azienda annuncia la chiusura e il licenziamento dei dipendenti, sale per protesta sulla torre più alta dello

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Salvo (Francesco Pannofino) è un operaio: quando l'azienda annuncia la chiusura e il licenziamento dei dipendenti, sale per protesta sulla torre più alta dello stabilimento. Giorgio (Roberto Citran), rappresentante sindacale, lo segue lassù diventandone paladino e ostaggio. I due uomini non potrebbero essere più diversi, eppure la loro disperazione è comune. Per solidarietà, sulla torre sale anche Luca (Carlo Gabardini), custode della fabbrica e autistico dotato di una memoria eccezionale: grazie alla sua straordinaria capacità di ricordare fatti e avvenimenti, i tre sventurati ripercorreranno insieme la storia d'Italia a partire dal 1978, anno cardine per il Paese.


Difficile a credersi ma, nonostante la poca predisposizione del pubblico, esistono ancora anche in Italia registi che praticano il genere militante; un cinema che rinuncia ad accattivare e preferisce piuttosto perseguire il suo scopo storiografico e politico. Nobile, ma dissuasivo. Per lo spettatore medio che si trova a leggerne preventivamente la trama, Patria non è esattamente un film che invita alla corsa alla sala cinematografica. Liberamente tratto dal romanzo omonimo di Enrico Deaglio, la pellicola parte dal 1978 (anno dell'omicidio Moro, dell'omicidio Impastato, della presidenza di Pertini, dell'istituzione del Servizio Sanitario Nazionale) per un viaggio attraverso la storia d'Italia fino ai giorni attuali. Il pretesto sono tre personaggi – un operaio, un sindacalista, un custode autistico ma genialoide – più o meno volontariamente intrappolati sul tetto di una fabbrica in fallimento. All'interno di questa abbozzata cornice, il regista Felice Farina inserisce un racconto italiano indeciso tra il documentario (i materiali sono tratti dagli archivi Luce e del Centro Sperimentale di Cinematografia) e la fiction moralistica.


L'idea di partenza è certamente degna di merito: non solo il romanzo di Deaglio costituisce un soggetto intrasponibile per forma e contenuto, ma lo stesso argomento del film è una scommessa. L'intenzione autoriale è quella di legare passato e presente italiano in un ritratto storiografico che – con l'aiuto delle preziose riflessioni del giornalista/scrittore – prova a spiegare il contemporaneo. Su un altro discorso è la questione cinematografica. In regia come in scrittura, Farina mostra grandi difficoltà nello stabilire nella cornice un presupposto verosimile per cui tre uomini semplici, arrabbiati e dotati di una singolare caratterizzazione debbano trovarsi su una torre a discutere di politica e società. Le premesse sembrano da teatro dell'assurdo o, meglio ancora, da dialogo platoniano; ma invece di trovarsi sul ciglio della strada o nell'agorà, i tre stanno su un tetto a battersi per i loro diritti di lavoratori e di uomini. Decisamente troppo per non gettare sullo spettatore un velo di perplessità. Se paradossalmente il regista avesse lavorato di più sulla surrealtà della situazione, i tre uomini sul tetto avrebbe potuto aver ragion d'essere. E invece, seppur gonfiati di un tono aulico e militante fino allo sfinimento, i protagonisti restano personaggi da cornice, ritratti stilizzati che fanno da pretesto a una lezione di storia della durata di quasi novanta minuti. Il tentativo mancato di fare di un documentario Luce e del saggio di Deaglio una pellicola d'attualità che racconti agilmente trent'anni di Italia. Un'impresa forse allettante per un regista, ma destinata a spaventare anche un pubblico cinematografico meno ostico di quello di casa nostra.


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