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Second Chance

19/03/2015 11:00

Erika Pomella

Recensione Film,

Second Chance

Sebbene sia stato girato precedentemente, Second Chance arriva nei cinema italiani dopo il discutibile Una folle passione, che ha avuto in qualche modo il compi

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Sebbene sia stato girato precedentemente, Second Chance arriva nei cinema italiani dopo il discutibile Una folle passione, che ha avuto in qualche modo il compito di portare in superficie tutte le crepe nel cinema di Susanne Bier. Da Love is all you need la regista danese sembra infatti aver perso la bussola e la cifra stilistica del proprio cinema, quella cioè che l'aveva portata a vincere il premio Oscar per In un mondo migliore. Se si tiene conto della cronologia seguita dalla distribuzione, si può affermare che Second Chance rappresenta paradossalmente una seconda possibilità anche per la sua autrice, che torna qui a un cinema più intimo.


Andreas (la star di Game of Thrones Nikolaj Coster-Waldau) è un detective della polizia, sposato con la bella Anna (Marie Bonnevie), da poco divenuto padre. Forse è proprio a causa della sua paternità che quando si imbatte in Tristan (Nikolaj Lie Kaas), un criminale da poco uscito di prigione e già pieno di eroina, Andrea rimane sconvolto dal modo in cui l'uomo e la compagna Sanne (May Anderson) trattano il figlio Sofus. La visione del neonato, lasciato a patire la fame in condizioni igieniche drammatiche, sconvolge Andreas al punto di spingerlo a chiamare i servizi sociali. Nel frattempo, però, nell'intimità della sua casa, il poliziotto deve affrontare una sfida tremenda, scatenando un intreccio di bugie.


Il merito che va riconosciuto a Susanne Bier per Second Chance è quello di aver scelto di affrontare tematiche che molto spesso non vengono toccate per un comune - quanto sbagliato - senso del pudore. Nonostante il film segua sempre e solo la figura di Andreas, così come i suoi drammi interiori, è indubbio che Second Chance sia un film profondamente femminile: lo è nel portare in scena la brutalità di una genitorialità, indicata come sacra, ma che spesso – nel suo essere inaspettata e non voluta – si trasforma in una "tortura" ai danni dei figli. Lo spettatore si trova davanti a due madri, Anna e Sanne, che proprio come suggerisce l'assonanza dei nomi, sono le immagini speculari di una maternità ambigua, distorta, piena di pregiudizi. Da una parte c'è Anna, bella e ricca, attenta ai bisogni del figlio e sempre pronta a dichiarare quanto la nascita di Alexander le abbia cambiato la vita; dall'altra invece c'è Sanne, umiliata e drogata dal suo compagno, che non riesce a essere la madre che vorrebbe a causa della sua dipendenza non tanto dalla droga, quanto da un uomo che la maltratta e la costringe a iniettarsi l'eroina. La maternità è per Susanne Bier un sentimento fatto di depressione post-partum e di un sentimento di inadeguatezza che colpisce molto spesso le donne che sentono di non rispondere a canoni che la società ha imposto loro. Nella scelta di queste tematiche, nel suo sguardo solidale verso un mondo femminile schiacciato da paradossi e luoghi comuni, Susanne Bier si muove con disinvoltura. I problemi, però, nascono quando queste tematiche – già di un certo peso – vengono caricate di altre riflessioni: dall'infanticizio all'abuso di droghe, dall'incapacità di comprendere il prossimo all'inadeguezza dei sistemi civili e sociali. Spunti interessanti, che finiscono con l'essere semplici fili lasciati a galleggiare in superficie, senza che ci sia lo spazio, il tempo o anche solo la volontà di andare a fondo. Il risultato è una pellicola che danza incerta sulle contaminazioni di genere e che non riesce mai a colpire fino in fondo lo spettatore, sebbene sviluppi una certa empatia con il protagonista quasi shakespeariano. La regia della Bier è in qualche modo fredda, sebbene ritorni alla sua amata macchina a mano e ai primissimi quadri, volti a indagare i movimenti dei sentimenti sotto lo scudo della pelle.


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