L’innesto è una pratica agronomica finalizzata alla riproduzione delle piante mediante la fusione anatomo-fisiologica di due individui differenti, detti rispettivamente “portinnesto” e “nesto”. Affinché le superfici dei due vegetali possano unirsi è necessario che esse siano state precedentemente tagliate in punti precisi. Si tratta, dunque, di un procedimento traumatico che ferisce la pianta, ma che le permette di rinnovarsi e di dare nuovi frutti. In un certo senso, è proprio questo ciò che subisce Laura, protagonista della commedia drammatica L’innesto di Luigi Pirandello, composta nel 1917 e rivisitata nel 2015 dall’attore e regista Michele Placido con La scelta. Laura (Ambra Angiolini) è un’insegnante di canto alle prese con i giovani allievi del Conservatorio, felicemente sposata a Giorgio (Raoul Bova), proprietario di un ristorante. Il loro è un grande amore, che cresce e si alimenta gioioso nel tempo malgrado un figlio che tarda ad arrivare. Sarà un’orribile violenza, prepotentemente introdottasi nelle loro vite come un fulmine a ciel sereno, a segnare la fine di questa attesa e ponendo entrambi davanti a una difficilissima scelta. Una scelta che nessuno vorrebbe mai essere chiamato ad affrontare e che naturalmente metterà a dura prova il loro solido legame. Michele Placido porta sullo schermo un testo pirandelliano che non figura certo tra i più noti del grande intellettuale siciliano ma che nel 1919, all’epoca della sua prima rappresentazione teatrale, fece scandalo in una società non ancora pronta a fare i conti con la modernità e la complessità delle domande che esso sollevava. Il regista sceglie di spostare la vicenda da Roma a Bisceglie, un paesino pugliese dotato di un centro storico affascinante e atipico, ma non si trova a dover operare altri significativi cambiamenti: la storia raccontata da Pirandello è estremamente attuale nella sua universalità. Riportando in vita una simile vicenda a quasi un secolo dalla sua genesi, Placido riflette sulla morale comune, nella convinzione che in alcuni ambiti poco o niente sia cambiato dagli anni Venti a oggi. La scelta restituisce la difficoltà comunicativa dei protagonisti avvalendosi di uno stile ben preciso, fondato sul frequente ricorso alla macchina da presa a mano e ai primissimi piani, nonché su di un utilizzo pervasivo delle sofisticate musiche di Luca D’Alberto. I lunghi silenzi, le parole sussurrate a fatica, gli sguardi evitati inducono lo spettatore a spostare continuamente i confini delle categorie di “vittima” e “carnefice”, come se tutto il film fosse costruito su di un doppio binario, spingendolo inevitabilmente a riflettere sull’amore, sul rapporto di coppia, sulla maternità. Cosa si è disposti ad accettare per amore? Può l’uomo comprendere il mistero femminile della gestazione? Fin dove è lecito spingersi per soddisfare il proprio desiderio di un figlio Sebbene il rischio di sovraccaricare enfaticamente le situazioni sia sempre all’agguato, Michele Placido racconta una storia intima e vibrante, coinvolgendo il pubblico sia sul piano emotivo che su quello razionale.