Una ragazzina sfreccia sulla sua bicicletta per le strade di una Budapest deserta, inseguita da una moltitudine infinita di cani. L'ultimo film di Kornél Mundruczó, White God, porta con sé, sin dalla sequenza iniziale, la potenza evocativa di un intero immaginario distopico e insieme la forza deflagrante della novità assoluta. Servendosi dello stereotipo e del genere il regista ungherese – premiato a Cannes nella sezione Un Certain Regard – racconta la separazione, le vicissitudini, l'emancipazione della piccola Lili e del suo sfortunato meticcio, scrivendo una favola nera anomala e paradossalmente originale che ha i tratti inequivocabili dell'allegoria. É proprio dal bistrattato Hagen, dalla sua avventura picaresca e disgraziata tra randagismo, incontri clandestini e vessazioni di ogni tipo, che passa un percorso di consapevolezza e rivalsa che si fa emblema esplicito dell'individuo sopraffatto e pronto a esplodere, a insorgere assieme a tutti i suoi simili contro chi ipocritamente l'ha sempre sfruttato, in una logica di potere per troppo tempo spacciata come ordine naturale delle cose. É un'opera morale, White God. Una favola dove i migliori amici dell'uomo si fanno esempi viventi e catalizzatori delle nefandezze del genere umano. Ultimi tra gli ultimi, emarginati tra gli emarginati, gli animali divengono vettore di un sentire che passa per il lato più oscuro di ognuno di noi, per il sentimento di dominio di una specie, di una classe, di un pensiero dove il potere è innalzato a prevaricazione sociale, ottusa legge incontrovertibile che scrive i rapporti tra dominanti e dominati. Attraverso un doppio percorso di consapevolezza, uno speculare viaggio di formazione dove la perdita dell'innocenza si fa emancipazione, Mundruczó confeziona, con fare eclettico e un intento fortemente pedagogico, una critica politica universale e insieme un monito sulla necessità del rispetto reciproco, della comprensione e dell'amore. Lo fa consapevole di andare incontro ad ambiguità e stonature, a un'imperfezione formale che travalica generi e registri facendo di White God un'opera a strati, difficilmente inquadrabile. L'eco de Il flauto magico di Mozart si confonde a rigurgiti ejzenstejniani, la distopia de Gli uccelli si perde nel teen drama e il film d'autore si mischia con la storia d'avventura di un classico disneyano, in un cortocircuito cumulativo straniante e affascinante al tempo stesso. Ma per quanto imperfetto, umorale, stentatamente unitario, tra repentini cambi di tono e svolte narrative, White God rimane un film irrimediabilmente necessario. Per ogni immagine che sfocia nello stereotipo, per ogni sviluppo che ha la scontatezza del già visto, ci sarà una sequenza commovente, suggestiva e tremenda che trasuda tanta verità quanto quella del messaggio di cui si fa portatrice. White God con la sua sfacciata ed esibita semplicità simbolica parla allo spettatore con tutta la sincerità che solo le favole sanno avere, che solo l'affetto di una ragazzina per il suo cane può regalare; nell'autenticità di uno sguardo altro puntato contro coloro che, ostinatamente, continuano a credere che Dio sia sempre e solo a propria immagine.