Il regista Walter Veltroni intervista alcuni bambini dai 9 ai 13 anni, provenienti da tutta Italia, su temi universali e d'attualità , tentando di capire come viene visto il paese attraverso lo sguardo puro dell'infanzia. Dopo il documentario celebrativo C'era una volta Berlinguer, l'ex politico e ora regista torna dietro la macchina da presa per un altro docufilm, I bambini sanno, dove l'ex sindaco di Roma interroga trentanove bambini sui temi più importanti della vita di tutti i giorni. La struttura e l'atmosfera sono anche più semplici del precedente cinematografico di Veltroni, che alternava testimonianze e immagini di repertorio con un tono malinconico. Attraverso la forma dell'intervista diretta, il regista si defila fuori campo e lascia solo la voce per dar spazio ai suoi protagonisti più piccoli, che in un mix di divertito stupore e ingenuità rispondono ai quesiti posti. Diviso in cinque parti, dove ognuna corrisponde a un tema specifico (amore, famiglia, Dio, crisi e passioni), i bambini del documentario affrontano con tocco semplice l'aspetto sentimentale delle loro giovani vite, il valore della famiglia, la religione, l'attualità economica fino ad immaginare il proprio futuro. L'obiettivo di Veltroni è ambizioso nel ritrarre uno spaccato di realtà attraverso chi guarda da più in basso, ma l'operazione pare troppo indirizzata verso un progressismo annunciato e buonista. Nel toccare corde facili nello spettatore, l'operazione risulta esageratamente sentimentale, fino a diventare vacua e assumere i connotati del film esperimento che può anche divertire, nel candore delle risposte date ai bambini, ma che fatica a trovare un equilibrio tra la sostanza - che vuole raccontare cioè la crisi economica, i conflitti religiosi, l'omosessualità vista dai ragazzi - e la forma ingenua e semplice. É certamente un'operazione politica, quella di Veltroni, che oltre ad affrontare tutti temi virati al sociale più urgente (anche se buttati sullo schermo con poca coerenza), non si fa mancare una dose consistente di insincerità quando intervista bambini malati, immigrati o portatori di handicap, inserendo un forzato messaggio - al sapore di zucchero - che pretende di infondere col proprio film una speranza sulle future generazioni per il paese. Il risultato, più che essere lucido o commovente, è un ibrido poco riuscito di trasmissione televisiva (allungata a dismisura) o pubblicità progresso, che con il cinema ha poco o nulla a che fare.