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Leviathan

08/05/2015 11:00

Maurizio Encari

Recensione Film,

Leviathan

Arriva in Italia con un palmares di premi e nomination invidiabile e con il favore pressoché assoluto della critica, il nuovo film del regista russo Andrei Zvya

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Arriva in Italia con un palmares di premi e nomination invidiabile e con il favore pressoché assoluto della critica, il nuovo film del regista russo Andrei Zvyagintsev, che aveva già scosso il panorama autoriale nel 2003 con il bellissimo Il ritorno, Leone d'oro a Venezia. Senza discostarsi dalle atmosfere drammatiche che avevano segnato i suoi precedenti lavori, il cineasta gestisce nel migliore dei modi la tagliente sceneggiatura, scritta a quattro mani con Oleg Negin, ispirata dichiaratamente alla storia vera di Marvin John Heemeyer: in seguito a una disputa legale su un territorio di sua proprietà, un saldatore americano corazza un bulldozer e demolisce il municipio, la casa del sindaco e altri edifici della città; poi si toglie la vita con un colpo di pistola. In Leviathan la narrazione percorre strade diverse partendo da un incipit pressoché identico, in una storia di ingiustizie sociali e sofferenza umana.


Kolya, un piccolo lavoratore autonomo dedito all'alcool, vive a Teriberka (una località rurale di Murmansk, in Russia) con la nuova compagna e il figlio avuto da una precedente relazione. La città è controllata da un sindaco corrotto con il quale Kolya ha in corso una disputa legale: il politico vorrebbe infatti espropriargli le terre, per costruirvi un nuovo grattacielo. In soccorso al protagonista giunge il vecchio amico Dmitriy, affermato avvocato di Mosca, che cerca di trovare in ogni modo prove per poter scagionare Kolya, ricorrendo anche al ricatto, unica arma disponibile contro i magheggi dei poteri forti. Ma proprio quando le cose sembrano voltare al meglio per Kolya e la sua famiglia, un inaspettato tradimento ribalterà nuovamente le carte in tavola.


Vi sono echi di maestri come Tarkovskij e Sokurov nella compassata e decadente abilità registica di Zvysgintes, capace di raccontare, nelle due ore e venti di visione, una storia tristemente contemporanea e veritiera nella quale la corruzione e il denaro sono destinati a dettar legge nell'esistenza dei comuni mortali. Dramma puro e tragico, giustamente privato di un finale consolatorio, Leviathan è un'opera potente che utilizza il dolore e la sofferenza come mezzi empatici, centrando in pieno l'obiettivo e mettendo davanti allo spettatore l'ineluttabilità della spietata società odierna. Il regista ne ha per tutti, dalla corruzione imperante nello Stato fino alla compiacenza inutile dei dogmi religiosi, tracciando con sofferta ambiguità anche le caratterizzazioni dei "buoni" protagonisti. Un contesto metaforico che rispecchia bene la situazione del Paese, con una delle scene più significative nella quale Kolya e i suoi amici, durante una gita fuori porta, si apprestano a sparare colpi di fucile contro i ritratti di vecchie glorie politiche (da Stalin a Gorbaciov), lamentandosi per l'assenza dei loro attuali eredi di poltrona. Crudo e senza sconti nella lenta disgregazione morale dei personaggi, baciati da una cura introspettiva e attoriale dall'ammirabile profondità, Leviathan è un Capolavoro che utilizza la fascinosa e brulla desolazione di un paesaggio rurale a picco sul mare: onde impetuose, sulle quali si apre e si chiude la visione, diventano metafora chiara e precisa di come, per quanti sforzi un uomo potrà compiere, rimarrà sempre schiacciato dal peso del proprio ruolo nel mondo.


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