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Altman

22/05/2015 11:00

Francesca Solazzo

Recensione Film,

Altman

«Cosa significa per me essere altmaniano? Fare film eroicamente indipendenti...

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«Cosa significa per me essere altmaniano? Fare film eroicamente indipendenti. E imperfetti». Ron Mann, documentarista canadese, classe 1958, risponde così alla domanda che apre la sua più recente pellicola: Altman. Un viaggio dietro le quinte di una mente creativa lungimirante, la quale ha saputo costruire lungo mezzo secolo di carriera non solo la storia americana indipendente ma anche lo spirito del costume occidentale. Tra una chiacchiera su Hitchcock, un'altra sulle esperienze teatrali, il successo di MASH e le autoproduzioni, ciò che è rimasto nella storia dello spirito guerriero del grande Robert Altman viene candidamente mostrato in questo documentario, tra spezzoni di film che intervallano interviste d'epoca e ricordi di amici e colleghi.


Nel 1970 la fama di Robert Altman supera i confini internazionali con la Palma d' oro a Cannes per MASH, seguito a distanza di pochi anni da Nashville, altro successo di critica e pubblico. L' Oscar alla carriera nel 2006, ricevuto pochi mesi prima di morire, corona un cinquantennio di lavoro che ha abbracciato le maggiori correnti e mode cinematografiche made in USA. Tra i tanti meriti di Altman vi è innanzitutto aver dimostrato che fare film indipendenti è possibile, arrivando a successi straordinari. Un esempio per i giovani cineasti che si arenano nel labirinto dei finanziamenti. Ossessionato dal “grande circo americano”, dalle storture della politica e dal fasullo firmamento hollywoodiano, il maestro ha scardinato le convenzioni del racconto classico, combattendo apertamente quella forma di conservatorismo politico e cinematografico tanto cara all' industria dei film. «Altmaniano» è anche un concetto di stile, applicabile a posteriori: humor nero, coreografie caotiche, dialoghi febbrili e sovrapposti , trame a più livelli, personaggi iconoclastici, fotografia onnisciente e un metodo d'improvvisazione di gruppo noto come “seat-of-the-pants”. Dall'esordio anticonvenzionale per eccellenza, in piena Guerra Fredda (MASH è il primo film davvero “diverso” sulla guerra di Corea) passando per l'orrore e la schizofrenia di Images, Altman ha rivoluzionato il personaggio tipico del noir e lo ha trasformato in uno scialbo brontolone ne Il lungo addio. Ha mostrato l' apice della decadenza di un'America ossessionata da se stessa e intenta a divorarsi con il capolavoro Nashville del 1975, ha esplorato l'universo femminile in Tre donne e criticato il rituale sociale del matrimonio con Un matrimonio. Della sfera pubblica ha smascherato in Secret Honor la sporcizia della politica corrotta di Nixon e ha reso satirico il culto della celebrità ne I protagonisti. In America oggi ha scritto un manifesto dell'America dominata dal caos e dalla fortuna, concludendo con la lucida analisi del potere e della corruzione in Gosford Park e strappando l'ultimo beffardo sorriso con Radio America.


Grazie alle memorie della moglie Kathryn Reed l' ossatura del racconto di Ron Mann assume una piega intimista e familiare, attraverso le opinioni di volti noti (e non) chiamati a rispondere alla domanda «Cosa significa Altmaniano?». Su tutti Paul Thomas Anderson, Bruce Willis, Julianne Moore e Robin Williams hanno avuto l'onore e il piacere di essere diretti o accompagnati dal maestro di Kansas City, una persona che davvero credeva nel potenziale artistico dell'attore, fulcro vitale di un film. Con le musiche di Phil Dwyer e Guido Luciani, indispensabili a legare ricordi e realtà, e la puntigliosa ricostruzione di sceneggiatura di Len Blum, il film esalta la figura del mito restituendone un volto umano, attraverso piccoli ritagli di scene quotidiane sul set, tra litigi e risate. “Altmaniano” è oggi associato a naturalismo, critica sociale, sovvertimento del genere, non conformità a regole prevedibili, indistruttibilità. Quando il nome di un regista diventa un aggettivo, la sua fama ha varcato i confini della storia diventando leggenda.


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