Saul Auslander (Geza Rohrig) è un membro ungherese dei Sonderkommando, il gruppo di prigionieri ebrei isolati dai campi di concentramento e costretti a lavori speciali per i nazisti. Quando Saul vede il corpo inerme di un ragazzo all'interno di un forno crematorio, lo scambia per suo figlio ed è intenzionato a dargli degna sepoltura nonostante le ferree regole del campo. Dopo essere stato per anni assistente di regia per Bela Tarr, il giovane regista ungherese Laszlo Nemes esordisce dietro la macchina da presa con Il figlio di Saul, film tra i più apprezzati del 68° Festival di Cannes e vincitore del Gran Prix Speciale della Giuria. Nemes racconta della tragedia dei Sonderkommando, prigionieri ebrei obbligati a lavori speciali per i nazisti. Il film segue il protagonista Saul e la sua epopea attraverso il campo di prigionia, per seppellire il corpo di un ragazzo che crede essere suo figlio. Dalla trama sembrerebbe l'ennesima produzione storica sulla Shoah o un ulteriore war movie, ma il punto di vista originale fa dell'opera un inedito nel suo genere: Nemes riesce a rinnovare sia l'immaginario dell'olocausto al cinema sia lo stesso cinema di guerra. Girato interamente in un claustrofobico 4:3 e costantemente fuori fuoco, ne Il figlio di Saul l'unico elemento visibile è il corpo e il volto del protagonista; la sua odissea personale che si svela mentre attorno succede la tragedia e accade la Storia. Nemes guarda alla guerra come un fuoricampo invisibile. Il figlio di Saul racconta una storia particolare e lascia al non detto l'universale: la guerra, il sangue e la morte non si vedono quasi mai - la vista è sempre sbarrata - eppure il film riesce comunque a restituirne la drammaticità attraverso i rumori delle bombe e delle urla strazianti. Una violenza che non vediamo, ma che si sente sempre. Viene evitata così qualunque deriva retorica o qualsiasi immagine esplicita, a favore di un cinema che si fa sensitivo e che sfrutta un'idea di messa in scena per divenire necessità di sguardo. Guardando Il figlio di Saul pare che si osservi un microcosmo, un'area di visione ristretta che volontariamente lascia fuori la morte e che in ogni caso entra nell'inquadratura, anche se mai in primo piano. Il film di Nemes, oltre a una riflessione sempre giusta sulla banalità del male e sull'abuso di potere, è un'opera soprattutto sull'erroneità del vedere come arma di testimonianza. Ciò che non si osserva, potrebbe essere negato: ecco allora che la prova diventa necessariamente la percezione degli altri sensi. Il figlio di Saul non fa mai guardare con gli occhi, ma osserva tramite un fuoricampo sempre più doloroso che lascia all'immaginazione ed è ancora più terrificante. Non solo sguardo altro sulla guerra, ma anche il racconto di un uomo che in una situazione di morte certa tenta di ritrovare attraverso un gesto d'amore e rispetto un antidoto alla disumanizzazione.