Se provaste a chiedere a una ragazza cresciuta negli anni '90 qual è stato il suo idolo musicale nella fascia d'età tra i 13 e 17 anni, al 99% vi sentirete rispondere un solo nome: Backstreet Boys. Un sorriso e uno sguardo ancora vagamente estatico accompagnerebbero quel ricordo adolescenziale, quei primi passi nel mondo degli adulti, quando sembrava che non ci fosse sogno più grande che partecipare al concerto della più celebre boyband di tutti i tempi. Per due giorni solamente, arriva al cinema il docufilm Backstreet Boys – Show 'em what you're made of: due ore in cui il regista Stephen Kijak segue da vicino il riavvicinarsi della band, dopo i problemi legati a droga e abbandoni. Lo spettatore quindi condotto attraverso stralci di vita privata dei cinque componenti originali, tra paure e antiche rivalità mai definitivamente sotterrate. Da una parte il documentario si offre come celebrazione di un gruppo che, tra alti e bassi, è ancora oggi riconosciuto come l'unica e vera boyband (per buona pace di chi è venuto dopo, Five o Nsync che fossero); dall'altra lascia intravedere la granulosità degli anni '90, con i look improponibili, le vecchie vhs (ormai riconvertite), i poster agitati al vento come gargliardetti di guerra. In tutto questo c'è anche lo sguardo allucinato di un'industria musicale che mercificava ragazzini per farne delle star ad hoc, per poi gettarli in un mare troppo agitato per la loro giovane età e lasciarli naufragare tra l'errata consapevolezza di se stessi e l'ingenuità necessaria per farsi derubare dal proprio manager. Nel termine nostalgia si nasconde una malattia infame, quella del dolore del ritorno. Uno stato d'animo, una maledizione che costringe a voltare indietro la testa e guardare con dolore a quello che è stato e che, molto probabilmente, non potrà mai più essere. In questo dolore si nasconde il cuore del film: Backstreet Boys – show 'em wthat you're made of non è semplicemente il ritratto di una boyband, ma una pellicola che riflette sull'identità di quei cinque ragazzini ormai cresciuti e costretti ad affrontare il fantasma della loro giovinezza. D'altra parte, come si fa a far parte di una boyband una volta che cresciuti? Come si può ballare come un ragazzino degli anni '90, ora che altri vent'anni gravano sulle spalle? Su questi interrogativi il regista Stephen Kijak si sofferma, ricordando ai fan – e al contempo insegnando ai più snob – che i Backstreet Boys non sono semplici volti baciati da madre natura. Ai tratti somatici piacenti hanno sempre accompagnato un genere musicale definito che, nel 2012 - con il ritorno alla formazione originale - li ha condotti a un nuovo album, ad affrontare le proprie ombre e le proprie paure per tornare da un pubblico che non li ha mai abbandonati. Per questo il film si arricchisce, per circa venti minuti, delle immagini del concerto di Londra dove i BSB si sono esibiti, mettendo in scena alcuni dei loro successi, inclusi I want it that way o Shape of my heart. Il pubblico ha accompagnato le note e la rinascita con entusiasmo, ignari del tempo trascorso o dell'età anagrafica segnata sui documenti. Perché a volte l'adolescenza non finisce e rimane invece lì, a chiedere un nuovo tipo di lealtà . As long as you love me.