Il taxi come “non luogo” al cinema è una certezza. Sfogo di violenza repressa per Scorsese, zona franca in cui sfuggire al non sense della vita secondo Michael Mann. Un anonimo mezzo a quattro ruote che diventa più sicuro del mondo intero; in cui difendere se stessi - o qualcun altro - da ciò che avviene fuori. Proprio su un taxi il premiatissimo regista Jafar Panahi ambienta il suo film: un viaggio nella Teheran di tutti i giorni, dove la quotidianità diventa soggetto dirompente e scomodo. Celebrato nei principali festival cinematografici, Jafar Panahi in terra natia ci sta piuttosto stretto. Dopo la militanza politica contro Ahmadinejad, un'ingombrante censura è arrivata a pesare sulla sua attività di autore: vent'anni di interdizione dall'arte cinematografica, dal giornalismo e da qualsiasi veicolo culturale. Ecco allora che, in una patria ostile, il taxi diventa il luogo in cui esprimere dissenso o - più semplicemente - una necessità espressiva più potente del veto artistico. Taxi Teheran è un'opera combattente, ma soprattutto una finestra (o un finestrino) aperta sull'aria di cambiamento che si respira in Iran: un paese enorme popolato da gente variopinta - anziani progressisti o giovani conservatori, donne sottomesse e bambine rivoluzionarie - che ha bisogno di esprimersi e ascoltare. Di sentirsi protagonista. E il taxi di Panahi, con la sua piccola telecamera e i suoi passeggeri/attori, diventa la scena su cui offrire l'Iran contemporaneo al mondo intero. Un palco protetto e accogliente che ospita ogni voce. Un regista che, da vero fan della libertà di espressione, lascia spazio a tutti i pareri (anche a quelli scomodi, come la necessità della pena capitale o la convinzione che una donna “coscienziosa” debba evitare di mostrarsi in pubblico) e si concede una tragica scena madre: il testamento di un ferito, soccorso dalla moglie devota. Che genere di cinema è Taxi Teheran? Un'opera che vince l'Orso d'Oro a Berlino, senz'altro. Ma raggiunge il pubblico? Jafar Panahi, che già con le passate opere di fiction (Il palloncino bianco, Il cerchio) aveva incantato Cannes, Venezia e Locarno, decide di concedersi stavolta un esperimento filmico. Ma non è solo la tematica a scoraggiare lo spettatore e neanche la storia politica che vi sta dietro: dissuasiva è persino la tecnica (fintamente) imperfetta di una camera “amatoriale” e quindi genuina, innocente. Ma nessuno è così ingenuo da credere che un film così militante possa essere del tutto “neorealista”: fra i tanti pareri raccolti, l'opinione del regista è la sola che emerge e l'utilizzo del cinema come arma contro la censura c'è e si vede. Le scene selezionate nella travagliata versione definitiva (sottoposta a serrate procedure di sicurezza anti sequestro da parte delle autorità iraniane), quali “interviste” fare emergere più di altre e l'attenzione riservata al melò, rivelano una cura al contempo estetica e contenutistica. Una lama sguainata contro l'oscurantismo culturale. Eppure, nonostante gli intenti universali, Taxi Teheran è un'opera concepita per il suo autore più che per il pubblico. Destinata a raggiungere più facilmente l'occidente patinato che l'uomo medio. Ovunque esso sia.