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Copenaghen d’inizio secolo. Einar Wegener (Eddie Redmayne), pittore danese, vive con complicità il suo rapporto coniugale con Gerda (Alicia Vikander), artista come lui. Il loro matrimonio è sereno e divertente ma proprio durante uno dei loro abituali giochi di coppia, indossando abiti femminili e impersonando una donna di nome Lili, in Einar si risveglia qualcosa. Lili è la vera identità di Einar? Ruzzolando dallo scherzo al dramma, il protagonista precipita in un sentiero spinoso fatto di depressione, rifiuto della propria vita precedente, psicoanalisi, terapie per curare le sue "perversioni". Solo il dottor Warnekros (Sebastian Koch), primo medico dell’epoca a dedicarsi al caso di uomini con crisi identitarie, riuscirà a lenire le ferite di un calvario senza fine e a dare a Einar un barlume di speranza: ottenere definitivamente un corpo femminile.
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Lili Elbe è una sensazione, uno stato d’animo, la dolcezza e la malinconia. La percepiamo sullo schermo dalla meravigliosa interpretazione di Eddie Redmayne, che ancora una volta mostra le sue doti di attore versatile e capace. Basta poco, ad esempio un paio di calze leggere, e quella che indiscutibilmente ognuno di noi riconosce come femminilità fa capolino all’interno della pellicola. Il soggetto è tratto dal romanzo omonimo di David Ebershoff, e racconta la storia del primo intervento chirurgico per mutare genere. Hooper si trova a dover maneggiare di nuovo (dopo Il discorso del re) una storia sui limiti fisici. Ma questa volta abbandona totalmente qualsiasi componente ironica, optando per un registro definitivamente drammatico. Scelta condivisibile: giggioneggiare sul tema sarebbe stato troppo rischioso, finendo per banalizzarlo o andando sopra le righe. La pellicola convince perché sfugge dal sentimentalismo a tutti i costi, dando la giusta dignità a un importante scopo: la felicità e la completezza personale, per ottenere la quale spesso siamo costretti a compiere scelte dolorose.
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Il regista mette in scena una trasformazione graduale, senza bruschi colpi di scena. Questa naturalezza ci porta per mano a vivere la trasformazione, che è già dichiarata a inizio pellicola e che si conclude sul piano fisico solo verso il finale. La messa in scena suggestiva combina dettagli e costumi d’epoca con una fotografia "pittorica", restituendoci un prodotto che convince tutti perché racconta temi complicati sussurrandoli sottovoce. Il doppio corre inevitabile per gran parte della narrazione, fino a un momento preciso in cui non ci sono dubbi: è quella femminilità dimenticata, annichilita in un corpo maschile ad avere la meglio. Certezza che ritroviamo rafforzata in chiave pittorica dal momento che persino sua moglie dipingerà Einar solo come Lili. L’arte, quindi, diventa registro per veicolare significati nascosti ma anche per liberare e provocare lo sguardo bigotto dell’epoca. Convince quasi tutti Tom Hooper, con questo bellissimo racconto - presentato in concorso a Venezia72 - che con sensibilità e delicatezza mantiene il giusto equilibrio degli elementi filmici e ci regala un protagonista da Oscar.
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