Armando (Alfredo Castro) è un uomo solo, è solo un uomo. Vaga per le strade di Caracas alla ricerca di giovani da portare a casa e pagarli perché si spoglino. Questo giochetto sordido si interrompe nel momento in cui incontra Elder, che si oppone alle sue perversioni e lo deruba. Nonostante la repulsione, qualcosa fa si che Elder continui a cercare Armando: raggirandolo e prendendosi gioco di lui, finisce per esserne attratto, anche fisicamente. Storia di un rapporto ambiguo tra un uomo di mezza età e un ragazzino, tra accettazione e negazione, fino ai giorni dell’abbandono. Opera prima del regista venezuelano Lorenzo Vigas, Desde allà è il film vincitore del 52esimo Festival del Cinema di Venezia. E sorprende tutti, visto che ripropone la tematica sdoganata dell’omosessualità a pagamento, dell’identità sessuale indefinita e la circonvenzione di ragazzini-derelitti che scendono a compromessi con presunti valori. Niente di nuovo, dunque, in questa pellicola che non mostra nulla, nemmeno i corpi usati, sporcati dal bisogno di denaro facile, annichiliti da una realtà criminale e violenta. Quartieri degradati, giovani induriti dalla vita, l’umiliazione come prassi consolidata. Desde allà, ossia da lontano. Questa la percezione che abbiamo dalla visione del film: uno spettacolo poco coinvolgente e freddo, perennemente fuori fuoco, che vorrebbe scandalizzare ma non ci riesce, inghiottito quasi da una censura autolesionista. La storia di Vigas è ossessionata dal realismo ma si colloca codardamente lontano dai suoi personaggi. La caratterizzazione è monca, intravediamo difficili vicende legate al rapporto padre-figlio ma che non vengono mai nemmeno accennate in maniera funzionale a far ruotare la storia su ingranaggi meno striduli. Nonostante alcuni passaggi più schietti, come se la regia avesse deciso di sbottonarsi e riprendere fiato, il film continua sulla strada dell’iper-controllo; non si abbandona mai a se stessa, scegliendo il garbo stonato, come le grida sotto a un balcone ("Armando!"). Anche le scene più tenere sono mostrate centellinando emozioni, dialoghi, silenzi. L’aggressività domina la pellicola, svilendo il rapporto tra i due protagonisti e il capovolgimento (interessante) della dialettica iniziale. Bastava un po’ di poesia in più a ingentilire un pedinamento amoroso, ad accarezzare la rabbia e l’orgoglio ferito. Che sia chiaro, parliamo di occasioni sprecate perché il film ha comunque delle dinamiche notevoli e si poggia su uno script che ha del vigore e del ritmo, che regge fino al finale. Ma non basta: poco vale la performance di Castro distratta e meravigliosamente stanca; la malinconica sensazione di orizzonti sociali calpestati; le atmosfere di vuoti pneumatici; la paradossale miseria di chi ricorre al denaro per pagare ciò che non ha prezzo. Tutti questi elementi, privi di personalizzazione, rimangono bellissima traccia di un cinema di un certo genere, in una rappresentazione che non ha però il tono di voce giusto per farsi ascoltare.