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L'attesa

21/09/2015 10:00

Valentina Pettinato

Recensione Film,

L'attesa

Anna (Juliette Binoche) e Jeanne (Lou de Laâge) sono due donne legate da un’assenza comune, quella di Giuseppe...

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Anna (Juliette Binoche) e Jeanne (Lou de Laâge) sono due donne legate da un’assenza comune, quella di Giuseppe. Anna, la madre, chiusa nella sua casa in Sicilia, cerca di superare il dolore per la sua morte. Jeanne, la sua fidanzata francese, era stata invitata per trascorrere qualche giorno di vacanza con lui, ma al suo arrivo – inspiegabilmente - non lo trova. Incapace di confessare alla giovane ragazza del figlio la verità, le due donne aspetteranno invano il rientro del ragazzo defunto.


Ispirato liberamente al dramma di Luigi Pirandello La vita che ti diedi, L'attesa, opera prima di Piero Messina, era tra i film italiani in concorso alla 72esima Mostra del Cinema di Venezia. Ambientata in una Sicilia immobile, la pellicola usa la sospensione tempo-spazio come metafora della morte, in particolare dell’elaborazione del lutto. E lo fa con una messa in scena che si concentra su Madonne, immagini sacre, oggetti rifugio nei quali trova conforto gente smarrita in balia di un dolore immenso. La narrazione è affidata al confronto tra due donne: entrambe francesi, entrambe bellissime, entrambe innamorate dello stesso uomo. Il loro incontro sarà un pretesto per continuare a immaginare che Giuseppe sia ancora in vita. Crocifissi e immagini pittoriche su sfondi neri, dove la dimensione del dolore si antropomorfizza in lacrime umane, si rintana in spazi cupi, riecheggia in stanze mai messe in ordine. È la visione del lutto di Piero Messina che, nell’arrivo della giovane ragazza francese in Sicilia, colloca il turning point narrativo per rappresentare il percorso di rinascita e di accettazione della perdita. Madre e fidanzata si pongono in una posizione di attesa: aspettano il ritorno di Giuseppe mentre si avvicina la Pasqua, in un arco di tempo carico di simbolismo, scandito da cerimonie, processioni e preparativi alla Risurrezione.


Con mano leziosa la regia confeziona un prodotto che vibra di estetica, che colpisce per lirismo e che affascina per l’uso dei silenzi alternati a musiche coinvolgenti (bellissima la scena sulle note di Leonard Cohen). Il rigore stilistico, le geometrie nelle inquadrature, i simboli creano un linguaggio paratestuale che contribuisce a caricare questa attesa di un’indiscutibile eleganza formale. Pur parlando di morte, essa stessa in questo film acquisisce plasticità: è come assente perché diventa forma, si fa vaso comunicante di due diverse attese. Di ritorno, di oblio. La struttura narrativa è composta da quadri dotati di una certa autonomia, che dichiarano la loro vocazione poetica ma che rendono debole e spigolosa la dinamica degli eventi e la fruizione da parte dello spettatore. Chiuso nel circolo vizioso dell’autorialità, il film non ha respiro e congela i sentimenti. Ma non facciamone un dramma, perché la pellicola non lo vuole essere affatto. Realizzata per sedimentazione di livelli, precisa e balistica nel lavorare gli elementi, L’attesa è un’opera da contemplare, è cinema nella sua essenza, è libertà di prenderne e mangiarne tutti. E ai cultori della costruzione narrativa perfetta verrà magari l’orticaria, ma questo film sbanda, si spegne, si assenta, ma si fa perdonare presunte defaillance con una pienezza tale che bisogna ammetterlo: sarà anche acerbo, ma quello di Messina è un gran bel cinema.


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