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Un mondo fragile

23/09/2015 11:00

Aurora Tamigio

Recensione Film,

Un mondo fragile

Alfonso (Haimer Leal), vecchio contadino assente da casa da diciassette anni, torna dalla sua famiglia per prendersi cura del figlio Gerardo (Edison Raigosa), g

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Alfonso (Haimer Leal), vecchio contadino assente da casa da diciassette anni, torna dalla sua famiglia per prendersi cura del figlio Gerardo (Edison Raigosa), gravemente malato. Estraneo per sua moglie, per il figlio e per la nuora, si ritrova catapultato in un mondo sconosciuto e ostile, che ha per sfondo un disastrato paesaggio di canne da zucchero e territori sfruttati selvaggiamente. Una scelta si impone a Alfonso: scappare ancora o restare e cambiare quel piccolo universo in rovina.


C'è un giovane regista (classe 1984) che si laurea alla colombiana Università del Valle con una tesi sotto forma di sceneggiatura, già pronta a diventare un lungometraggio. Questo lungo, La tierra y la sombra, viene presentato nel 2015 al Festival di Cannes come opera d'esordio e vince la Caméra d’Or. César Augusto Acevedo approda al cinema così, senza troppe presentazioni ufficiali e senza una vera gavetta: dalla sua ha una storia da raccontare e un talento inaspettato. Il soggetto di partenza è il dramma dei corteros, i tagliatori di canna da zucchero, realtà colombiana poco nota e parecchio tragica. Tragica, nel senso cinematografico del termine, dal momento che Un mondo fragile ha tutti i caratteri di un drammatico nostos: il ritorno a casa di Alfonso, fra la sua gente dimenticata e in mezzo alla sua famiglia quasi sconosciuta. Acevedo dirige un film stratificato, che parte dall'impalcatura classica del melò familiare (grandemente contaminata dai narratori sudamericani) per arrivare al racconto sociale, a riflessioni importanti sul lavoro e le sue condizioni, su quanto questo contamini la vita quotidiana e le relazioni affettive. La regia è meticolosa. Ben distante dal dirigere un'inchiesta (come, invece, l'origine accademica dello script farebbe immaginare), Acevedo cura ogni passaggio con grande rigore integrando narrazione e cura tecnica: alternanza classica fra ombre e luce, fotografia nitida (un piccolo capolavoro di Mateo Guzman), movimenti di camera graduali. Non c'è grande originalità autoriale, però, va ammesso: l'inquadratura, mai troppo personalizzata, non sembra accettare alcun punto di vista ma mantiene i campi e si muove con equilibrio, avvicinando con cautela ora i personaggi ora gli ambienti. Lo sguardo è lucido ma impersonale. Acevedo si colloca nettamente fuori dalla storia, così come ne resta lo spettatore, coinvolto solo in parte dal racconto dei corteros. Leggermente disorientato fra le informazioni ambientali e la vicenda personale di Alfonso.


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