Roma, 2006. Leonardo Zuliani, intellettuale antisemita, scompare nel nulla. A Trastevere, i concittadini sono in lutto e l'élite intellettuale si mobilita per invocarne il ritorno ed esaltarne il ruolo di vate. Viene così realizzato un documentario che ne ripercorre la vita: alle origini dell'odio maturato contro gli ebrei, inizio della fortunata attività letteraria. Dio ha detto agli Ebrei: voi siete il popolo eletto. A mio parere, c'è bisogno di un ballottaggio. Da Groucho Marx a Woody Allen sino ai Coen, è dimostrato che l'umorismo ebraico può essere irresistibile. Specie quando fa satira su se stesso, sull'integralismo e su quel certo - tipico - trionfalismo della memoria. L'ironia di Alberto Caviglia non ha niente a che vedere con queste punte comiche, ma la sua operazione cinematografica è piuttosto interessante. Classe 1984, il giovane regista romano dirige un mockumentary: un finto documentario che indaga il ruolo intellettuale e mediatico di tal Leonardo Zuliani, teorico e scrittore di fumetti e romanzi che rendono lecito, popolare e auspicabile l'antisemitismo. Personaggio discusso, quando svanisce nel nulla a chiedere a gran voce il suo ritorno è non solo il mondo della cultura ma anche la stessa comunità ebraica. Leonardo Zuliani, sia chiaro, non esiste. Si tratta di un'invenzione di Caviglia funzionale al racconto - surreale, ma incastonato nella credibile struttura del docufilm - di una società paradossale in cui l'odio verso gli ebrei non è più un tabù ma viene appoggiato dalla classe intellettuale e dalla politica. In questa società il libro di Zuliani è un best seller; dalla storia della sua vita vengono tratti film; Fabio Fazio e Gianni Canova vogliono parlare con lui; improbabili pellicole (interpretate da Margherita Buy, Carolina Crescentini, Francesco Pannofino) ne ricordardano le gesta. La situazione è assurda. Gli interventi che compaiono nel documentario fasullo sono di giornalisti come Carlo Freccero, di artisti come Gipi, di musicisti come Elio. Tutti, insomma, vogliono esserci e vogliono andare in tv a dire quanto Zuliani fosse un genio. E nel film, intanto, sfilano croci celtiche e dichiarazioni di un razzismo comicamente esasperato, grottesco. Caviglia mostra per questo esordio una verve dissacrante che rende omaggio a Trastevere, luogo di nascita di vernacolieri come Belli e Trilussa. Un film esilarante, ma solo per chi ha davvero un gran senso dell'umorismo. Che ne sarà infatti di questo esperimento cinematografico - e sociologico - una volta in sala? Capirà lo spettatore l'ironia acuta, amara, colta di Caviglia? Per non parlare del discorso filosofico e politico che vi sta dietro: una riflessione sull'abuso di memoria; su come antisemitismo e antisionismo siano definizioni consumate dal troppo uso, di cui si ignora spesso il reale significato. Pecore in erba è un film complesso, ma ambizioso. Ammirevole impresa per il mercato italiano. Un'operazione più interessante nel concetto che nella realizzazione: un film troppo lungo, che del cinema nostrano ha non solo gli interpreti ma anche il ritmo posato e ripetitivo. Eppure le trovate ci sono, dal violento fumetto "Bloody Mario" all'invenzione di titoli e motti razzisti che - non ne voglia davvero la comunità ebraica - ma sono irresistibili. Che poi, se ancora non si fosse capito, anche Alberto Caviglia è ebreo.