Dheepan è costretto a vivere in una farsa. Lo spirito di sopravvivenza lo obbliga a usare un nome non suo, a fingersi marito di una donna che non conosce e padre di una figlia mai vista prima. La paura e la speranza fanno il resto, portando una Tigre Tamil come lui a lasciare uno Sri Lanka devastato dalla guerra civile e a partire, clandestino, alla volta della Francia, nel tentativo di trasformare quella tragica commedia in qualcosa di vero, sincero, autentico. É un cinema delle possibilità quello di Jacques Audiard che torna alla regia proprio con Dheepan, Palma d'oro all'ultimo Festival di Cannes. Un cinema che cala i suoi protagonisti nella Storia e, allo stesso tempo, nel sogno di una nuova esistenza, di una vita altra da sé. Ma è anche un cinema carnale e istintuale che nella fisicità dei suoi personaggi riscrive il senso di una violenza sempre presente e vero motore di qualsiasi possibile presa di coscienza o redenzione. Dopo i viaggi di formazione distorti de Il profeta e gli amori liminali di Un sapore di ruggine e ossa, uno dei registi più significativi nel panorama del cinema contemporaneo europeo torna con l'ennesima parabola di una vita ai margini dove l'umanità scaturisce dai silenzi, dall'incomprensione, dalla paura in una storia che nell'intimità imbarazzata dei suoi interpreti cattura la visione con un'empatia avvolgente. Tra i palazzoni degradati di una banlieue parigina, teatro delle lotte intestine di piccoli boss locali, dove il pericolo è sempre in agguato e pronto a scardinare le fragili fondamenta su cui il mesto Dheepan cerca di costruire una vita assieme a Yalini e alla piccola Illayaal, fuggendo da un passato di sangue e morte che pare perseguitarlo, Audiard stempera i toni del suo cinema, lo rende più intimo ed essenziale nell'urgenza palpabile di raccontare una storia figlia del proprio tempo. Lo fa con un film più intimista (minore, forse), esaltando gli sguardi, giocando sull'incomunicabilità linguistica e umana, dilatando tempi ed emozioni, fino a stemperare la violenza permettendole di deflagrare in un finale esasperato e quasi catartico. Persino il tema dell'immigrazione diventa così qualcosa di inevitabilmente altro, intravisto in tutta la sua drammatica potenza attraverso quell'universo di mondi possibili fatti di miserie e sogni che il film – adottando un più che mai inedito punto di vista – tratteggia con tanta abilità senza tuttavia fargli prendere il sopravvento, senza perdere il senso universale di una vicenda che ha le tinte sommesse e rarefatte della storia d'amore, un viaggio emotivo e riflessivo su ciò che davvero può chiamarsi famiglia.