Malony (Rod Paradot) è stato abbandonato da bambino in un istituto e da allora viene rimbalzato da una struttura all'altra, su decisione della giudice Florence (Catherine Deneuve). Comunicare con questo ragazzo taciturno e ritroso è piuttosto difficile, almeno fino a quando non entra in gioco Yann (Benoit Magimel), un educatore che comprende Malony perchè come lui ha avuto un'infanzia complicata. «Oui, je suis Catherine Deneuve»: una certezza che giustifica una carriera come quella della diva francese - fatta di alti e bassi, di pellicole leggere e interpretazioni ancora grandi - ma che non basta a fare affezionare all'ultimo film di Emmanuelle Bercot. La storia di un ragazzo ribelle, ma non abbastanza genio per interessare a Gus van Sant: non c'è nessun talento particolare in Malony, niente per cui il suo mentore debba lottare ed estrarlo con fatica da una società che – a ben vedere – non è nemmeno così sporca. La Francia dell'egalitè, rigida nel suo “infallibile” sistema giudiziario, fa da sfondo a una storia comune: una vicenda come tante, che la regista scrive ispirandosi al centro per minori in cui lavorava suo zio quando era solo una bambina. Lì, di ragazzi come il protagonista ne ha visti tanti e forse troppi per riuscire a dare a questo personaggio e a questa storia l'eccezionalità di Will Hunting - Genio ribelle o la furia di Mommy. Selezionato per aprire Cannes 2015, il film di Emmanuelle Bercot vanta una pedanteria narrativa che neanche Boyhood ha osato: come se i dodici anni di vita di Malony fossero materiale per un trattato di pedagogia e non il soggetto di un film. Una sorta di casistica dell'abbandono. La tensione al cospetto dalla giudice interpretata da Catherine Deneuve (il motivo per cui la bella attrice sia diventata, con gli anni, volto privilegiato di personaggi anonimi o solamente gelidi, è sconosciuto), la solitudine dell'istituto, la mancanza del padre sono temi messi in gioco ma poi dimenticati. Forse dati per scontato oppure evitati per paura di incappare in un polpettone dickensiano. Che si voglia o no, si tratta dell'ennesimo ritratto di “incompreso". E dal momento che la fuga materna, l'orfanotrofio, gli adulti nemici e il compagno/mentore sono spunti che vengono messi in scena, tanto valeva affondare nel melò e coltivare l'analisi dei sentimenti di un ragazzo rifiutato. Si sarebbe almeno potuto inquadrare questo film in un genere specifico. E invece siamo di fronte a una trama che fonde racconto giudiziario e family drama in un tono sempre uguale, per tutta la sua durata. Ma forse raccontare la formazione di un giovane uomo senza famiglia è un'impresa che, per quanto poco originale, richiede molta più esperienza umana e artistica di quanto si pensi. A testa alta è un film girato bene e privo di grandi difetti, se non la totale mancanza di singolarità ed empatia. La voce di Emmanuelle Bercot sul tema non si erge: non si capisce cosa aggiunga quest'opera al dibattito sulla famiglia, al genere, alla narrazione – piuttosto visitata – di un giovane uomo che cerca la sua strada. E collocando Malony (nonostante la modernità dell'interpretazione dell'esordiente Rod Paradot) sul solco profondo della tradizione francese, è facile tornare con la mente all'Antoine de I 400 colpi e provare una grande malinconia per quel ragazzo sulla spiaggia, la cui assenza di percorsi lo rendeva un eroe adatto a qualunque strada.