Film di apertura della 33a edizione del Torino Film Festival è Suffragette, pellicola della regista Sarah Gavron ambientata nell’Inghilterra dei primi del ‘900. Un film tutto al femminile, che racconta le vicende storiche attorno alle prime rivendicazioni delle donne, guidate da un movimento di disobbedienza che ebbe la sua musa ispiratrice in Emmeline Pankhurst. In Suffragette c’è un davvero un bellissimo lavoro di attualizzazione: la regista, pur rappresentando eventi del passato, non si limita a una cronistoria e sceglie di non concentrarsi su un personaggio in particolare. Optando per una narrazione corale, il film si fa portavoce universale di lotta, nella rappresentazione fisica di dolore, sofferenze e ingiustizie poco distanti da quelle che ancora oggi subiscono "i generi" e che non sono poi tanto dissimili. La trama si concentra sui mesi più duri delle rivendicazioni e privilegia lo sguardo di un personaggio di finzione, Maud, perché simulacro di un passaggio. Attraverso il punto di vista della protagonista cogliamo il senso e otteniamo il movimento: ciò che spinge una persona ad abbracciare una causa fino a voler morire per essa. Suffragette sceglie una messa in scena vera, autentica. Lo fa attraverso scelte stilistiche forti e severe, giocando con la macchina da presa e il montaggio nel mostrare le vicende in tutta la loro violenza espressiva o, a volte, privandoci della visione, esibendo solo dettagli e gestualità . La narrazione è totalmente proiettata a restituire l’autenticità del tempo, meno a realizzare una storia ben congeniata e che spicchi per guizzo creativo. Questo probabilmente perché la vicenda stessa è giudicata dalla regista di per sé originale e poco battuta dalla cinematografia. Il risultato ne è la prova: il film ricalca gli stilemi di genere e si concentra nel rendere giustizia a una Visione, piuttosto che alla visione del film stesso. Dal punto di vista tecnico anche gli aspetti scenici contribuiscono a dare enfasi a questa pagina grigia della storia: sovraccaricando i toni cupi, quello che viene fuori è proprio la realtà triste e claustrofobica di un’epoca. Peccato per la spersonalizzazione dei personaggi, per una Meryl Streep col contagocce, per il poco carisma nella vicenda. Dalla visione della pellicola è come se la Gavron si sentisse portatrice di una missione: parlare della lotta, del coraggio delle donne, ma attraverso esse, come un mezzo. Questa decisione, rispettabile, ha un precipitato: si limita, mostrandoci poco. E non ci concede nemmeno di esultare nel momento di conquista.